Tutt'e tre

Tutt'e tre
di Luigi Pirandello


INDICE
--------------
Tutt'e tre
L'ombra del rimorso
Il bottone della palandrana
Marsina stretta
Il marito di mia moglie
La maestrina Boccarmè
Acqua e lì
Come gemelle
Filo d'aria
Un matrimonio ideale
Ritorno
Tu ridi
Un po' di vino
La liberazione del re
I due compari




TUTT'E TRE

Ballarò venne su strabalzoni dal giardino agitando in aria, invece delle mani, le maniche; perduto come era in un abito smesso del padrone.
- Maria Santissima! Maria Santissima!
La gente si fermava per via.
- Ballarò, che è stato?
Non si voltava nemmeno; scansava quanti tentavano pararglisi di fronte, e via di corsa verso il Palazzo del Barone, seguitando a ripetere quasi a ogni passo:
- Maria Santissima! Maria Santissima!
Quella corsa in salita, alla fine, e l'enormità della notizia che recava alla signora Baronessa lo stordirono tanto che, subito com'entrò nel palazzo, ebbe un capogiro e piombò sulle natiche, tra attonito e smarrito. Trovò appena il fiato per annunziare:
- Il signor Barone... correte... gli è preso uno sturbo... giù nel giardino...
All'annunzio la Baronessa, donna Vittoria Vivona, restò in prima come basita. Con la bocca aperta, gli occhi sbarrati si portò piano le grosse mani ai capelli, e si mise a grattarsi la testa. Tutt'a un tratto, balzò in piedi, quant'era lunga, con un tal grido che per poco non ne tremarono i muri dell'antico palazzo baronale. Subito dopo però, si diede ad agitar furiosamente quelle mani davanti alla bocca, quasi volesse disperdere o ricacciare indietro il grido; poi le protese in atto di parare, accennando che si chiudessero tutti gli usci; e con voce soffocata:
- Per carità, per carità, non lo senta Nicolina! Ha il bambino attaccato al petto! Lo scialle... datemi lo scialle!
E sussultò tutta nel ventre, nelle enormi poppe, di nuovo cacciandosi le mani nei ruvidi capelli color di rame:
- È morto, Ballarò? Oh Madre santa! Oh San Francescuccio di Paola, santo mio protettore, non me lo fate morire!
Così dicendo, fece per cavarsi dal petto la medaglina del santo; strappò il busto, non riuscendo a sganciarlo con le dita che le ballavano; trasse la medaglina e si mise a baciarla, a baciarla, tra i singhiozzi irrompenti e le lagrime che le grondavano dagli occhi bovini sul faccione giallastro, macchiato di grosse lentiggini; finché non sopravvennero le serve, una delle quali le buttò addosso lo scialle.
Seguita da quelle e preceduta da Ballarò, col fagotto delle molte sottane tirato su a mezza gamba, si lasciò andare traballando patonfia per la scala del palazzo; e per un tratto, scordandosi di riabbassar quelle sottane, attraversò le vie della città con gli sconci polpacci delle gambe scoperti, le calze turchine di cotone grosso e le scarpe con gli elastici sfiancati, il busto strappato e le poppe sobbalzanti alla vista di tutti; mentre, stringendo nel pugno la medaglina, seguitava a gemere col vocione da maschio:
- San Francescuccio di Paola, santo padruccio mio protettore, cento torce alla vostra chiesa! fatemi la grazia, non me lo fate morire!
Ballarò, battistrada, alleggerito ora dal peso della notizia, quasi rideva, da quello scemo che era, per la soddisfazione d'essere uno di casa, in una congiuntura come quella, che attirava la curiosità della gente. Rispondeva a tutti:
- Sturbo, sturbo. Niente. Un piccolo sturbo al signor Barone. - Dove? Nel giardino di Filomena.
- Nel giardino di Filomena?
E tutti si davano a correre dietro alla Baronessa, senz'alcuna maraviglia che ella si recasse a vedere il marito là, nel giardino di quella Filomena, che per tanti anni era stata notoriamente «la femmina» del Barone, e dalla quale egli - ormai da vecchio amico - soleva passare ogni giorno due o tre ore del pomeriggio, amoroso dei fiori, dell'orto, degli alberetti di pesco e di melagrano di quel pezzo di terra regalato all'antica sua amante.

Circa dieci anni addietro, questo barone, Don Francesco di Paola Vivona, era salito a un borgo montano, a pochi chilometri dalla città, con la scorta di tutti i suoi nobili parenti a cavallo.
Re di quel borgo era un antico massaro, il quale aveva avuto la fortuna di trovare nelle alture d'una sua terra sterile, scabra d'affioramenti schistosi, una delle più ricche zolfare di Sicilia, accortamente fin da principio ceduta a ottime condizioni a un appaltatore belga, venuto nell'isola in cerca d'un buon investimento di capitali per conto d'una società industriale del suo paese.
Senza un mal di capo, quel massaro aveva accumulato così, in una ventina d'anni, una ricchezza sbardellata, di cui egli stesso non s'era mai saputo render conto con precisione, rimasto a vivere in campagna da contadino tra le sue bestie, coi cerchietti d'oro agli orecchi e vestito d'albagio come prima. Solo che s'era edificata una casa bella grande, accanto all'antica masseria; e in quella casa s'aggirava impacciato e come sperduto, la sera, quando veniva a raggiungere, dopo i lavori campestri, l'unica figliuola e una vecchia sorella più zotiche di lui e così ignare o non curanti della loro fortuna, che ancora seguitavano a vender le uova delle innumerevoli galline, davanti al cancello, alle donnicciuole che si recavano poi coi panieri a rivenderle in città.
La figlia Vittoria - o Bittò, come il padre la chiamava, - rossa di pelo, gigantesca come la madre morta nel darla alla luce, fino a trent'anni non aveva mai avuto un pensiero per sé, tutta intesa, col padre, ai lavori della campagna, al governo della masseria, alla vendita dei raccolti ammontati nei vasti magazzini polverosi, di cui teneva appese alla cintola le chiavi, bruciata dal sole e sudata, sempre con qualche festuca di paglia tra i cerfugli arruffati.

...continua


Consulta la lista completa dei testi disponibili.

Questo sito utilizza i testi disponibili sui siti LiberLiber e Project Gutenberg dove puoi scaricarli gratuitamente.

Share Share on Facebook Share on Twitter Bookmark on Reddit Share via mail
Privacy Policy Creative Commons Attribution-Share Alike Trovami