I promessi sposi

Entrati nel castello, il signore fece condurre Agnese e Perpetua in una stanza del quartiere assegnato alle donne, che occupava tre lati del secondo cortile, nella parte posteriore dell'edifizio situata sur un masso sporgente e isolato, a cavaliere a un precipizio. Gli uomini alloggiavano ne' lati dell'altro cortile a destra e a sinistra, e in quello che rispondeva sulla spianata. Il corpo di mezzo, che separava i due cortili, e dava passaggio dall'uno all'altro, per un vasto andito di rimpetto alla porta principale, era in parte occupato dalle provvisioni, e in parte doveva servir di deposito per la roba che i rifugiati volessero mettere in salvo lassù. Nel quartiere degli uomini, c'erano alcune camere destinate agli ecclesiastici che potessero capitare. L'innominato v'accompagnò in persona don Abbondio, che fu il primo a prenderne il possesso.
Ventitre o ventiquattro giorni stettero i nostri fuggitivi nel castello, in mezzo a un movimento continuo, in una gran compagnia, e che ne' primi tempi, andò sempre crescendo; ma senza che accadesse nulla di straordinario. Non passò forse giorno, che non si desse all'armi. Vengon lanzichenecchi di qua; si son veduti cappelletti di là. A ogni avviso, l'innominato mandava uomini a esplorare; e, se faceva bisogno, prendeva con sé della gente che teneva sempre pronta a ciò, e andava con essa fuor della valle, dalla parte dov'era indicato il pericolo. Ed era cosa singolare, vedere una schiera d'uomini armati da capo a piedi, e schierati come una truppa, condotti da un uomo senz'armi. Le più volte non erano che foraggieri e saccheggiatori sbandati, che se n'andavano prima d'esser sorpresi. Ma una volta, cacciando alcuni di costoro, per insegnar loro a non venir più da quelle parti, l'innominato ricevette avviso che un paesetto vicino era invaso e messo a sacco. Erano lanzichenecchi di vari corpi che, rimasti indietro per rubare, s'eran riuniti, e andavano a gettarsi all'improvviso sulle terre vicine a quelle dove alloggiava l'esercito; spogliavano gli abitanti, e gliene facevan di tutte le sorte. L'innominato fece un breve discorso a' suoi uomini, e li condusse al paesetto.
Arrivarono inaspettati. I ribaldi che avevan creduto di non andar che alla preda, vedendosi venire addosso gente schierata e pronta a combattere, lasciarono il saccheggio a mezzo, e se n'andarono in fretta, senz'aspettarsi l'uno con l'altro, dalla parte dond'eran venuti. L'innominato gl'inseguì per un pezzo di strada; poi, fatto far alto, stette qualche tempo aspettando, se vedesse qualche novità; e finalmente se ne ritornò. E ripassando nel paesetto salvato, non si potrebbe dire con quali applausi e benedizioni fosse accompagnato il drappello liberatore e il condottiero.
Nel castello, tra quella moltitudine, formata a caso, di persone, varie di condizione, di costumi, di sesso e d'età, non nacque mai alcun disordine d'importanza. L'innominato aveva messe guardie in diversi luoghi, le quali tutte invigilavano che non seguisse nessun inconveniente, con quella premura che ognuno metteva nelle cose di cui s'avesse a rendergli conto.
Aveva poi pregati gli ecclesiastici, e gli uomini più autorevoli che si trovavan tra i ricoverati, d'andare in giro e d'invigilare anche loro. E più spesso che poteva, girava anche lui, e si faceva veder per tutto; ma, anche in sua assenza, il ricordarsi di chi s'era in casa, serviva di freno a chi ne potesse aver bisogno. E, del resto, era tutta gente scappata, e quindi inclinata in generale alla quiete: i pensieri della casa e della roba, per alcuni anche di congiunti o d'amici rimasti nel pericolo, le nuove che venivan di fuori, abbattendo gli animi, mantenevano e accrescevano sempre più quella disposizione.
C'era però anche de' capi scarichi, degli uomini d'una tempra più salda e d'un coraggio più verde, che cercavano di passar que' giorni in allegria. Avevano abbandonate le loro case, per non esser forti abbastanza da difenderle; ma non trovavan gusto a piangere e a sospirare sur una cosa che non c'era rimedio, né a figurarsi e a contemplar con la fantasia il guasto che vedrebbero pur troppo co' loro occhi. Famiglie amiche erano andate di conserva, o s'eran ritrovate lassù, s'eran fatte amicizie nuove; e la folla s'era divisa in crocchi, secondo gli umori e l'abitudini. Chi aveva danari e discrezione, andava a desinare giù nella valle, dove in quella circostanza, s'eran rizzate in fretta osterie: in alcune, i bocconi erano alternati co' sospiri, e non era lecito parlar d'altro che di sciagure: in altre, non si rammentavan le sciagure, se non per dire che non bisognava pensarci. A chi non poteva o non voleva farsi le spese, si distribuiva nel castello pane, minestra e vino: oltre alcune tavole ch'eran servite ogni giorno, per quelli che il padrone vi aveva espressamente invitati; e i nostri eran di questo numero.
Agnese e Perpetua, per non mangiare il pane a ufo, avevan voluto essere impiegate ne' servizi che richiedeva una così grande ospitalità; e in questo spendevano una buona parte della giornata; il resto nel chiacchierare con certe amiche che s'eran fatte, o col povero don Abbondio. Questo non aveva nulla da fare, ma non s'annoiava però; la paura gli teneva compagnia. La paura proprio d'un assalto, credo che la gli fosse passata, o se pur gliene rimaneva, era quella che gli dava meno fastidio; perché, pensandoci appena appena, doveva capire quanto poco fosse fondata. Ma l'immagine del paese circonvicino inondato, da una parte e dall'altra, da soldatacci, le armi e gli armati che vedeva sempre in giro, un castello, quel castello, il pensiero di tante cose che potevan nascere ogni momento in tali circostanze, tutto gli teneva addosso uno spavento indistinto, generale, continuo; lasciando stare il rodìo che gli dava il pensare alla sua povera casa. In tutto il tempo che stette in quell'asilo, non se ne discostò mai quanto un tiro di schioppo, né mai mise piede sulla discesa: l'unica sua passeggiata era d'uscire sulla spianata, e d'andare, quando da una parte e quando dall'altra del castello, a guardar giù per le balze e per i burroni, per istudiare se ci fosse qualche passo un po' praticabile, qualche po' di sentiero, per dove andar cercando un nascondiglio in caso d'un serra serra. A tutti i suoi compagni di rifugio faceva gran riverenze o gran saluti, ma bazzicava con pochissimi: la sua conversazione più frequente era con le due donne, come abbiam detto; con loro andava a fare i suoi sfoghi, a rischio che talvolta gli fosse dato sulla voce da Perpetua, e che lo svergognasse anche Agnese. A tavola poi, dove stava poco e parlava pochissimo, sentiva le nuove del terribile passaggio, le quali arrivavano ogni giorno, o di paese in paese e di bocca in bocca, o portate lassù da qualcheduno, che da principio aveva voluto restarsene a casa, e scappava in ultimo, senza aver potuto salvar nulla, e a un bisogno anche malconcio: e ogni giorno c'era qualche nuova storia di sciagura. Alcuni, novellisti di professione, raccoglievan diligentemente tutte le voci, abburattavan tutte le relazioni, e ne davan poi il fiore agli altri. Si disputava quali fossero i reggimenti più indiavolati, se fosse peggio la fanteria o la cavalleria; si ripetevano, il meglio che si poteva, certi nomi di condottieri; d'alcuni si raccontavan l'imprese passate, si specificavano le stazioni e le marce: quel giorno, il tale reggimento si spandeva ne' tali paesi, domani anderebbe addosso ai tali altri, dove intanto il tal altro faceva il diavolo e peggio. Sopra tutto si cercava d'aver informazione, e si teneva il conto de' reggimenti che passavan di mano in mano il ponte di Lecco, perché quelli si potevano considerar come andati, e fuori veramente del paese. Passano i cavalli di Wallenstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l'ultimo. Lo squadron volante de' veneziani finì d'allontanarsi anche lui; e tutto il paese, a destra e a sinistra, si trovò libero. Già quelli delle terre invase e sgombrate le prime, eran partiti dal castello; e ogni giorno ne partiva: come, dopo un temporale d'autunno, si vede dai palchi fronzuti d'un grand'albero uscire da ogni parte gli uccelli che ci s'erano riparati. Credo che i nostri tre fossero gli ultimi ad andarsene; e ciò per volere di don Abbondio, il quale temeva, se si tornasse subito a casa, di trovare ancora in giro lanzichenecchi rimasti indietro sbrancati, in coda all'esercito. Perpetua ebbe un bel dire che, quanto più s'indugiava, tanto più si dava agio ai birboni del paese d'entrare in casa a portar via il resto; quando si trattava d'assicurar la pelle, era sempre don Abbondio che la vinceva; meno che l'imminenza del pericolo non gli avesse fatto perdere affatto la testa.
Il giorno fissato per la partenza, l'innominato fece trovar pronta alla Malanotte una carrozza, nella quale aveva già fatto mettere un corredo di biancheria per Agnese. E tiratala in disparte, le fece anche accettare un gruppetto di scudi, per riparare al guasto che troverebbe in casa; quantunque, battendo la mano sul petto, essa andasse ripetendo che ne aveva lì ancora de' vecchi.
- Quando vedrete quella vostra buona, povera Lucia... - le disse in ultimo: - già son certo che prega per me, poiché le ho fatto tanto male: ditele adunque ch'io la ringrazio, e confido in Dio, che la sua preghiera tornerà anche in tanta benedizione per lei.
Volle poi accompagnar tutti e tre gli ospiti, fino alla carrozza. I ringraziamenti umili e sviscerati di don Abbondio e i complimenti di Perpetua, se gl'immagini il lettore. Partirono; fecero, secondo il fissato, una fermatina, ma senza neppur mettersi a sedere, nella casa del sarto, dove sentirono raccontar cento cose del passaggio: la solita storia di ruberie, di percosse, di sperpero, di sporchizie: ma lì, per buona sorte, non s'eran visti lanzichenecchi.
- Ah signor curato! - disse il sarto, dandogli di braccio a rimontare in carrozza: - s'ha da far de' libri in istampa, sopra un fracasso di questa sorte.
Dopo un'altra po' di strada, cominciarono i nostri viaggiatori a veder co' loro occhi qualche cosa di quello che avevan tanto sentito descrivere: vigne spogliate, non come dalla vendemmia, ma come dalla grandine e dalla bufera che fossero venute in compagnia: tralci a terra, sfrondati e scompigliati; strappati i pali, calpestato il terreno, e sparso di schegge, di foglie, di sterpi; schiantati, scapezzati gli alberi; sforacchiate le siepi; i cancelli portati via. Ne' paesi poi, usci sfondati, impannate lacere, paglia, cenci, rottami d'ogni sorte, a mucchi o seminati per le strade; un'aria pesante, zaffate di puzzo più forte che uscivan dalle case; la gente, chi a buttar fuori porcherie, chi a raccomodar le imposte alla meglio, chi in crocchio a lamentarsi insieme; e, al passar della carrozza, mani di qua e di là tese agli sportelli, per chieder l'elemosina.
Con queste immagini, ora davanti agli occhi, ora nella mente, e con l'aspettativa di trovare altrettanto a casa loro, ci arrivarono; e trovarono infatti quello che s'aspettavano.
Agnese fece posare i fagotti in un canto del cortiletto, ch'era rimasto il luogo più pulito della casa; si mise poi a spazzarla, a raccogliere e a rigovernare quella poca roba che le avevan lasciata; fece venire un legnaiolo e un fabbro, per riparare i guasti più grossi, e guardando poi, capo per capo, la biancheria regalata, e contando que' nuovi ruspi, diceva tra sé: " son caduta in piedi; sia ringraziato Iddio e la Madonna e quel buon signore: posso proprio dire d'esser caduta in piedi ".
Don Abbondio e Perpetua entrano in casa, senza aiuto di chiavi; ogni passo che fanno nell'andito, senton crescere un tanfo, un veleno, una peste, che li respinge indietro; con la mano al naso, vanno all'uscio di cucina; entrano in punta di piedi, studiando dove metterli, per iscansar più che possono la porcheria che copre il pavimento; e dànno un'occhiata in giro. Non c'era nulla d'intero; ma avanzi e frammenti di quel che c'era stato, lì e altrove, se ne vedeva in ogni canto: piume e penne delle galline di Perpetua, pezzi di biancheria, fogli de' calendari di don Abbondio, cocci di pentole e di piatti; tutto insieme o sparpagliato. Solo nel focolare si potevan vedere i segni d'un vasto saccheggio accozzati insieme, come molte idee sottintese, in un periodo steso da un uomo di garbo. C'era, dico, un rimasuglio di tizzi e tizzoni spenti, i quali mostravano d'essere stati, un bracciolo di seggiola, un piede di tavola, uno sportello d'armadio, una panca di letto, una doga della botticina, dove ci stava il vino che rimetteva lo stomaco a don Abbondio. Il resto era cenere e carboni; e con que' carboni stessi, i guastatori, per ristoro, avevano scarabocchiati i muri di figuracce, ingegnandosi, con certe berrettine o con certe cheriche, e con certe larghe facciole, di farne de' preti, e mettendo studio a farli orribili e ridicoli: intento che, per verità, non poteva andar fallito a tali artisti.
- Ah porci! - esclamò Perpetua. - Ah baroni! - esclamò don Abbondio; e, come scappando, andaron fuori, per un altr'uscio che metteva nell'orto. Respirarono; andaron diviato al fico; ma già prima d'arrivarci, videro la terra smossa, e misero un grido tutt'e due insieme; arrivati, trovarono effettivamente, in vece del morto, la buca aperta. Qui nacquero de' guai: don Abbondio cominciò a prendersela con Perpetua, che non avesse nascosto bene: pensate se questa rimase zitta: dopo ch'ebbero ben gridato, tutt'e due col braccio teso, e con l'indice appuntato verso la buca, se ne tornarono insieme, brontolando. E fate conto che per tutto trovarono a un di presso la medesima cosa. Penarono non so quanto, a far ripulire e smorbare la casa, tanto più che, in que' giorni, era difficile trovar aiuto; e non so quanto dovettero stare come accampati, accomodandosi alla meglio, o alla peggio, e rifacendo a poco a poco usci, mobili, utensili, con danari prestati da Agnese.
Per giunta poi, quel disastro fu una semenza d'altre questioni molto noiose; perché Perpetua, a forza di chiedere e domandare, di spiare e fiutare, venne a saper di certo che alcune masserizie del suo padrone, credute preda o strazio de' soldati, erano in vece sane e salve in casa di gente del paese; e tempestava il padrone che si facesse sentire, e richiedesse il suo. Tasto più odioso non si poteva toccare per don Abbondio; giacché la sua roba era in mano di birboni, cioè di quella specie di persone con cui gli premeva più di stare in pace.
- Ma se non ne voglio saper nulla di queste cose, - diceva. - Quante volte ve lo devo ripetere, che quel che è andato è andato? Ho da esser messo anche in croce, perché m'è stata spogliata la casa?
- Se lo dico, - rispondeva Perpetua, - che lei si lascerebbe cavar gli occhi di testa. Rubare agli altri è peccato, ma a lei, è peccato non rubare.
- Ma vedete se codesti sono spropositi da dirsi! - replicava don Abbondio: - ma volete stare zitta?
Perpetua si chetava, ma non subito subito; e prendeva pretesto da tutto per riprincipiare. Tanto che il pover'uomo s'era ridotto a non lamentarsi più, quando trovava mancante qualche cosa, nel momento che ne avrebbe avuto bisogno; perché, più d'una volta, gli era toccato a sentirsi dire: - vada a chiederlo al tale che l'ha, e non l'avrebbe tenuto fino a quest'ora, se non avesse che fare con un buon uomo.
Un'altra e più viva inquietudine gli dava il sentire che giornalmente continuavano a passar soldati alla spicciolata, come aveva troppo bene congetturato; onde stava sempre in sospetto di vedersene capitar qualcheduno o anche una compagnia sull'uscio, che aveva fatto raccomodare in fretta per la prima cosa, e che teneva chiuso con gran cura; ma, per grazia del cielo, ciò non avvenne mai. Né però questi terrori erano ancora cessati, che un nuovo ne sopraggiunse.
Ma qui lasceremo da parte il pover'uomo: si tratta ben d'altro che di sue apprensioni private, che de' guai d'alcuni paesi, che d'un disastro passeggiero.



CAPITOLO XXXI

La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d'Italia. Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s'intende, anzi in Milano quasi esclusivamente: ché della città quasi esclusivamente trattano le memorie del tempo, come a un di presso accade sempre e per tutto, per buone e per cattive ragioni. E in questo racconto, il nostro fine non è, per dir la verità, soltanto di rappresentar lo stato delle cose nel quale verranno a trovarsi i nostri personaggi; ma di far conoscere insieme, per quanto si può in ristretto, e per quanto si può da noi, un tratto di storia patria più famoso che conosciuto.
Delle molte relazioni contemporanee, non ce n'è alcuna che basti da sé a darne un'idea un po' distinta e ordinata; come non ce n'è alcuna che non possa aiutare a formarla. In ognuna di queste relazioni, senza eccettuarne quella del Ripamonti (Josephi Ripamontii, canonici scalensis, chronistae urbis Mediolani, De peste quae fuit anno 1630, Libri V. Mediolani, 1640, apud Malatestas.), la quale le supera tutte, per la quantità e per la scelta de' fatti, e ancor più per il modo d'osservarli, in ognuna sono omessi fatti essenziali, che son registrati in altre; in ognuna ci sono errori materiali, che si posson riconoscere e rettificare con l'aiuto di qualche altra, o di que' pochi atti della pubblica autorità, editi e inediti, che rimangono; spesso in una si vengono a trovar le cagioni di cui nell'altra s'eran visti, come in aria, gli effetti. In tutte poi regna una strana confusione di tempi e di cose; è un continuo andare e venire, come alla ventura, senza disegno generale, senza disegno ne' particolari: carattere, del resto, de' più comuni e de' più apparenti ne' libri di quel tempo, principalmente in quelli scritti in lingua volgare, almeno in Italia; se anche nel resto d'Europa, i dotti lo sapranno, noi lo sospettiamo. Nessuno scrittore d'epoca posteriore s'è proposto d'esaminare e di confrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti, una storia di quella peste; sicché l'idea che se ne ha generalmente, dev'essere, di necessità, molto incerta, e un po' confusa: un'idea indeterminata di gran mali e di grand'errori (e per verità ci fu dell'uno e dell'altro, al di là di quel che si possa immaginare), un'idea composta più di giudizi che di fatti, alcuni fatti dispersi, non di rado scompagnati dalle circostanze più caratteristiche, senza distinzion di tempo, cioè senza intelligenza di causa e d'effetto, di corso, di progressione. Noi, esaminando e confrontando, con molta diligenza se non altro, tutte le relazioni stampate, più d'una inedita, molti (in ragione del poco che ne rimane) documenti, come dicono, ufiziali, abbiam cercato di farne non già quel che si vorrebbe, ma qualche cosa che non è stato ancor fatto. Non intendiamo di riferire tutti gli atti pubblici, e nemmeno tutti gli avvenimenti degni, in qualche modo, di memoria. Molto meno pretendiamo di rendere inutile a chi voglia farsi un'idea più compita della cosa, la lettura delle relazioni originali: sentiamo troppo che forza viva, propria e, per dir così, incomunicabile, ci sia sempre nell'opere di quel genere, comunque concepite e condotte. Solamente abbiam tentato di distinguere e di verificare i fatti più generali e più importanti, di disporli nell'ordine reale della loro successione, per quanto lo comporti la ragione e la natura d'essi, d'osservare la loro efficienza reciproca, e di dar così, per ora e finché qualchedun altro non faccia meglio, una notizia succinta, ma sincera e continuata, di quel disastro.
Per tutta adunque la striscia di territorio percorsa dall'esercito, s'era trovato qualche cadavere nelle case, qualcheduno sulla strada. Poco dopo, in questo e in quel paese, cominciarono ad ammalarsi, a morire, persone, famiglie, di mali violenti, strani, con segni sconosciuti alla più parte de' viventi. C'era soltanto alcuni a cui non riuscissero nuovi: que' pochi che potessero ricordarsi della peste che, cinquantatre anni avanti, aveva desolata pure una buona parte d'Italia, e in ispecie il milanese, dove fu chiamata, ed è tuttora, la peste di san Carlo. Tanto è forte la carità! Tra le memorie così varie e così solenni d'un infortunio generale, può essa far primeggiare quella d'un uomo, perché a quest'uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora de' mali; stamparlo nelle menti, come un sunto di tutti que' guai, perché in tutti l'ha spinto e intromesso, guida, soccorso, esempio, vittima volontaria; d'una calamità per tutti, far per quest'uomo come un'impresa; nominarla da lui, come una conquista, o una scoperta.
Il protofisico Lodovico Settala, ché, non solo aveva veduta quella peste, ma n'era stato uno de' più attivi e intrepidi, e, quantunque allor giovinissimo, de' più riputati curatori; e che ora, in gran sospetto di questa, stava all'erta e sull'informazioni, riferì, il 20 d'ottobre, nel tribunale della sanità, come, nella terra di Chiuso (l'ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco), era scoppiato indubitabilmente il contagio. Non fu per questo presa veruna risoluzione, come si ha dal Ragguaglio del Tadino (Pag. 24.).
Ed ecco sopraggiungere avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano. Il tribunale allora si risolvette e si contentò di spedire un commissario che, strada facendo, prendesse un medico a Como, e si portasse con lui a visitare i luoghi indicati. Tutt'e due, " o per ignoranza o per altro, si lasciorno persuadere da un vecchio et ignorante barbiero di Bellano, che quella sorte de mali non era Peste " (Tadino, ivi.); ma, in alcuni luoghi, effetto consueto dell'emanazioni autunnali delle paludi, e negli altri, effetto de' disagi e degli strapazzi sofferti, nel passaggio degli alemanni. Una tale assicurazione fu riportata al tribunale, il quale pare che ne mettesse il cuore in pace.
Ma arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e a provvedere: il Tadino suddetto, e un auditore del tribunale. Quando questi giunsero, il male s'era già tanto dilatato, che le prove si offrivano, senza che bisognasse andarne in cerca. Scorsero il territorio di Lecco, la Valsassina, le coste del lago di Como, i distretti denominati il Monte di Brianza, e la Gera d'Adda; e per tutto trovarono paesi chiusi da cancelli all'entrature, altri quasi deserti, e gli abitanti scappati e attendati alla campagna, o dispersi: " et ci parevano, - dice il Tadino, - tante creature seluatiche, portando in mano chi l'herba menta, chi la ruta, chi il rosmarino et chi una ampolla d'aceto ". S'informarono del numero de' morti: era spaventevole; visitarono infermi e cadaveri, e per tutto trovarono le brutte e terribili marche della pestilenza. Diedero subito, per lettere, quelle sinistre nuove al tribunale della sanità, il quale, al riceverle, che fu il 30 d'ottobre, " si dispose ", dice il medesimo Tadino, a prescriver le bullette, per chiuder fuori dalla Città le persone provenienti da' paesi dove il contagio s'era manifestato; " et mentre si compilaua la grida ", ne diede anticipatamente qualche ordine sommario a' gabellieri.
Intanto i delegati presero in fretta e in furia quelle misure che parver loro migliori; e se ne tornarono, con la trista persuasione che non sarebbero bastate a rimediare e a fermare un male già tanto avanzato e diffuso.
Arrivati il 14 di novembre, dato ragguaglio, a voce e di nuovo in iscritto, al tribunale, ebbero da questo commissione di presentarsi al governatore, e d'esporgli lo stato delle cose. V'andarono, e riportarono: aver lui di tali nuove provato molto dispiacere, mostratone un gran sentimento; ma i pensieri della guerra esser più pressanti: sed belli graviores esse curas. Così il Ripamonti, il quale aveva spogliati i registri della Sanità, e conferito col Tadino, incaricato specialmente della missione: era la seconda, se il lettore se ne ricorda, per quella causa, e con quell'esito. Due o tre giorni dopo, il 18 di novembre, emanò il governatore una grida, in cui ordinava pubbliche feste, per la nascita del principe Carlo, primogenito del re Filippo IV, senza sospettare o senza curare il pericolo d'un gran concorso, in tali circostanze: tutto come in tempi ordinari, come se non gli fosse stato parlato di nulla.
Era quest'uomo, come già s'è detto, il celebre Ambrogio Spinola, mandato per raddirizzar quella guerra e riparare agli errori di don Gonzalo, e incidentemente, a governare; e noi pure possiamo qui incidentemente rammentar che morì dopo pochi mesi, in quella stessa guerra che gli stava tanto a cuore; e morì, non già di ferite sul campo, ma in letto, d'affanno e di struggimento, per rimproveri, torti, disgusti d'ogni specie ricevuti da quelli a cui serviva. La storia ha deplorata la sua sorte, e biasimata l'altrui sconoscenza; ha descritte con molta diligenza le sue imprese militari e politiche, lodata la sua previdenza, l'attività, la costanza: poteva anche cercare cos'abbia fatto di tutte queste qualità, quando la peste minacciava, invadeva una popolazione datagli in cura, o piuttosto in balìa.
Ma ciò che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quella sua condotta, ciò che fa nascere un'altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo. All'arrivo di quelle nuove de' paesi che n'erano così malamente imbrattati, di paesi che formano intorno alla città quasi un semicircolo, in alcuni punti distante da essa non più di diciotto o venti miglia; chi non crederebbe che vi si suscitasse un movimento generale, un desiderio di precauzioni bene o male intese, almeno una sterile inquietudine? Eppure, se in qualche cosa le memorie di quel tempo vanno d'accordo, è nell'attestare che non ne fu nulla. La penuria dell'anno antecedente, le angherie della soldatesca, le afflizioni d'animo, parvero più che bastanti a render ragione della mortalità: sulle piazze, nelle botteghe, nelle case, chi buttasse là una parola del pericolo, chi motivasse peste, veniva accolto con beffe incredule, con disprezzo iracondo. La medesima miscredenza, la medesima, per dir meglio, cecità e fissazione prevaleva nel senato, nel Consiglio de' decurioni, in ogni magistrato.
Trovo che il cardinal Federigo, appena si riseppero i primi casi di mal contagioso, prescrisse, con lettera pastorale a' parrochi, tra le altre cose, che ammonissero più e più volte i popoli dell'importanza e dell'obbligo stretto di rivelare ogni simile accidente, e di consegnar le robe infette o sospette (Vita di Federigo Borromeo, compilata da Francesco Rivola. Milano, 1666, pag. 582.): e anche questa può essere contata tra le sue lodevoli singolarità.
Il tribunale della sanità chiedeva, implorava cooperazione, ma otteneva poco o niente. E nel tribunale stesso, la premura era ben lontana da uguagliare l'urgenza: erano, come afferma più volte il Tadino, e come appare ancor meglio da tutto il contesto della sua relazione, i due fisici che, persuasi della gravità e dell'imminenza del pericolo, stimolavan quel corpo, il quale aveva poi a stimolare gli altri.
Abbiam già veduto come, al primo annunzio della peste, andasse freddo nell'operare, anzi nell'informarsi: ecco ora un altro fatto di lentezza non men portentosa, se però non era forzata, per ostacoli frapposti da magistrati superiori. Quella grida per le bullette, risoluta il 30 d'ottobre, non fu stesa che il dì 23 del mese seguente, non fu pubblicata che il 29. La peste era già entrata in Milano.
Il Tadino e il Ripamonti vollero notare il nome di chi ce la portò il primo, e altre circostanze della persona e del caso: e infatti, nell'osservare i princìpi d'una vasta mortalità, in cui le vittime, non che esser distinte per nome, appena si potranno indicare all'incirca, per il numero delle migliaia, nasce una non so quale curiosità di conoscere que' primi e pochi nomi che poterono essere notati e conservati: questa specie di distinzione, la precedenza nell'esterminio, par che faccian trovare in essi, e nelle particolarità, per altro più indifferenti, qualche cosa di fatale e di memorabile.
L'uno e l'altro storico dicono che fu un soldato italiano al servizio di Spagna; nel resto non sono ben d'accordo, neppur sul nome. Fu, secondo il Tadino, un Pietro Antonio Lovato, di quartiere nel territorio di Lecco; secondo il Ripamonti, un Pier Paolo Locati, di quartiere a Chiavenna. Differiscono anche nel giorno della sua entrata in Milano: il primo la mette al 22 d'ottobre, il secondo ad altrettanti del mese seguente: e non si può stare né all'uno né all'altro. Tutt'e due l'epoche sono in contraddizione con altre ben più verificate. Eppure il Ripamonti, scrivendo per ordine del Consiglio generale de' decurioni, doveva avere al suo comando molti mezzi di prender l'informazioni necessarie; e il Tadino, per ragione del suo impiego, poteva, meglio d'ogn'altro, essere informato d'un fatto di questo genere. Del resto, dal riscontro d'altre date che ci paiono, come abbiam detto, più esatte, risulta che fu, prima della pubblicazione della grida sulle bullette; e, se ne mettesse conto, si potrebbe anche provare o quasi provare, che dovette essere ai primi di quel mese; ma certo, il lettore ce ne dispensa.
Sia come si sia, entrò questo fante sventurato e portator di sventura, con un gran fagotto di vesti comprate o rubate a soldati alemanni; andò a fermarsi in una casa di suoi parenti, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini; appena arrivato, s'ammalò; fu portato allo spedale; dove un bubbone che gli si scoprì sotto un'ascella, mise chi lo curava in sospetto di ciò ch'era infatti; il quarto giorno morì.
Il tribunale della sanità fece segregare e sequestrare in casa la di lui famiglia; i suoi vestiti e il letto in cui era stato allo spedale, furon bruciati. Due serventi che l'avevano avuto in cura, e un buon frate che l'aveva assistito, caddero anch'essi ammalati in pochi giorni, tutt'e tre di peste. Il dubbio che in quel luogo s'era avuto, fin da principio, della natura del male, e le cautele usate in conseguenza, fecero sì che il contagio non vi si propagasse di più.
Ma il soldato ne aveva lasciato di fuori un seminìo che non tardò a germogliare. Il primo a cui s'attaccò, fu il padrone della casa dove quello aveva alloggiato, un Carlo Colonna sonator di liuto. Allora tutti i pigionali di quella casa furono, d'ordine della Sanità, condotti al lazzeretto, dove la più parte s'ammalarono; alcuni morirono, dopo poco tempo, di manifesto contagio.
Nella città, quello che già c'era stato disseminato da costoro, da' loro panni, da' loro mobili trafugati da parenti, da pigionali, da persone di servizio, alle ricerche e al fuoco prescritto dal tribunale, e di più quello che c'entrava di nuovo, per l'imperfezion degli editti, per la trascuranza nell'eseguirli, e per la destrezza nell'eluderli, andò covando e serpendo lentamente, tutto il restante dell'anno, e ne' primi mesi del susseguente 1630. Di quando in quando, ora in questo, ora in quel quartiere, a qualcheduno s'attaccava, qualcheduno ne moriva: e la radezza stessa de' casi allontanava il sospetto della verità, confermava sempre più il pubblico in quella stupida e micidiale fiducia che non ci fosse peste, né ci fosse stata neppure un momento. Molti medici ancora, facendo eco alla voce del popolo (era, anche in questo caso, voce di Dio?), deridevan gli augùri sinistri, gli avvertimenti minacciosi de' pochi; e avevan pronti nomi di malattie comuni, per qualificare ogni caso di peste che fossero chiamati a curare; con qualunque sintomo, con qualunque segno fosse comparso.
Gli avvisi di questi accidenti, quando pur pervenivano alla Sanità, ci pervenivano tardi per lo più e incerti. Il terrore della contumacia e del lazzeretto aguzzava tutti gl'ingegni: non si denunziavan gli ammalati, si corrompevano i becchini e i loro soprintendenti; da subalterni del tribunale stesso, deputati da esso a visitare i cadaveri, s'ebbero, con danari, falsi attestati.
Siccome però, a ogni scoperta che gli riuscisse fare, il tribunale ordinava di bruciar robe, metteva in sequestro case, mandava famiglie al lazzeretto, così è facile argomentare quanta dovesse essere contro di esso l'ira e la mormorazione del pubblico, " della Nobiltà, delli Mercanti et della plebe ", dice il Tadino; persuasi, com'eran tutti, che fossero vessazioni senza motivo, e senza costrutto. L'odio principale cadeva sui due medici; il suddetto Tadino, e Senatore Settala, figlio del protofisico: a tal segno, che ormai non potevano attraversar le piazze senza essere assaliti da parolacce, quando non eran sassi. E certo fu singolare, e merita che ne sia fatta memoria, la condizione in cui, per qualche mese, si trovaron quegli uomini, di veder venire avanti un orribile flagello, d'affaticarsi in ogni maniera a stornarlo, d'incontrare ostacoli dove cercavano aiuti, e d'essere insieme bersaglio delle grida, avere il nome di nemici della patria: pro patriae hostibus, dice il Ripamonti.
Di quell'odio ne toccava una parte anche agli altri medici che, convinti come loro, della realtà del contagio, suggerivano precauzioni, cercavano di comunicare a tutti la loro dolorosa certezza. I più discreti li tacciavano di credulità e d'ostinazione: per tutti gli altri, era manifesta impostura, cabala ordita per far bottega sul pubblico spavento.
Il protofisico Lodovico Settala, allora poco men che ottuagenario, stato professore di medicina all'università di Pavia, poi di filosofia morale a Milano, autore di molte opere riputatissime allora, chiaro per inviti a cattedre d'altre università, Ingolstadt, Pisa, Bologna, Padova, e per il rifiuto di tutti questi inviti, era certamente uno degli uomini più autorevoli del suo tempo. Alla riputazione della scienza s'aggiungeva quella della vita, e all'ammirazione la benevolenza, per la sua gran carità nel curare e nel beneficare i poveri. E, una cosa che in noi turba e contrista il sentimento di stima ispirato da questi meriti, ma che allora doveva renderlo più generale e più forte, il pover'uomo partecipava de' pregiudizi più comuni e più funesti de' suoi contemporanei: era più avanti di loro, ma senza allontanarsi dalla schiera, che è quello che attira i guai, e fa molte volte perdere l'autorità acquistata in altre maniere. Eppure quella grandissima che godeva, non solo non bastò a vincere, in questo caso, l'opinion di quello che i poeti chiamavan volgo profano, e i capocomici, rispettabile pubblico; ma non poté salvarlo dall'animosità e dagl'insulti di quella parte di esso che corre più facilmente da' giudizi alle dimostrazioni e ai fatti.

...continua


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