Il turno

Furon così ammessi alla vista del ferito anche Marcantonio Ravì e l'Alcozèr, venuti insieme, questi tutto sorridente e cerimonioso, quegli intozzato, su di sé, per la bile che gli fermentava in corpo come in una fornace.
- Don Pepè! don Pepè mio!
E gli volle per forza baciare una mano, rompendo in lagrime, come se Pepè fosse lì, moribondo.
La ferita invece non era di rischio, per quanto lunga e dolorosa. Pepè si lagnò coi due visitatori solo dell'immobilità a cui era costretto, e intanto con gli occhi in quelli di don Marcantonio cercava di legger notizie di Stellina.
Il Ravì gli parlò dell'interessamento di tutta la sua famiglia per lui; e don Diego confermò col capo le espressioni del suocero. Ah sì? dunque pure Stellina aveva saputo del duello? Pepè ne provò una vivissima gioja, turbata solo dal curioso sorriso con cui don Diego accompagnava quel suo tentennar del capo quasi a ogni parola del Ravì.
- Tornate, tornate a vedermi, - disse alla fine Pepè. - Ne avrò per molto tempo, ha detto il medico. Non potete neanche immaginare il piacere che mi farete...
- Piacere? voi? e io? - proruppe don Marcantonio. - La vita mia vi darei, don Pepè! Lo sa Dio ciò che ho sofferto nel sapervi... Basta! qui non posso parlare. Vi saluto. Ritorno domani... se però mi lasciano entrare. Sapete che, il giorno del duello, vostro cognato mi lasciò fuori la porta? Lasciar fuori me, che avrei voluto portarvi in braccio a casa mia per curarvi come un figliuolo! Basta. A rivederci, don Pepè.
Il Ravì tornò infatti, solo, non il domani, ma alcuni giorni dopo, e si trattenne a lungo a conversare con Pepè; gli disse che ogni giorno mandava la moglie da donna Bettina a darle notizia di lui, a confortarla, a tenerle compagnia, perché la poverina si struggeva dalla rabbia e dal dolore di non poter venire a vedere il figliuolo; gli parlò poi della bella casa dell'Alcozèr, del modo con cui questi trattava la moglie che finalmente si era arresa, delle visite che egli faceva a Stellina giornalmente per raccomandarle prudenza e pazienza:
- Perché, capite, don Pepè mio? Il vecchio, da un canto, ha coscienza di sé, dall'altro però, voi lo sapete, ama la compagnia, cosicché... mi spiego? gente in casa, giovanotti... Ora questo, se da una parte mi fa piacere, perché così Stellina ha un certo svago e non sta sola sola, dall'altra ho paura che dia cagione alle male lingue di sparlare. Sapete com'è il nostro paese... Ci vanno i vostri amici: i fratelli Salvo coi cugini Garofalo, buoni ragazzi allegri, lo so... e quanto a Stellina, non perché figlia mia, ma voi la conoscete: un angioletto! Tuttavia, vi par giusto metter la paglia accanto al fuoco? Basta, io, per me, non c'entro più: ora deve pensarci il marito, il quale esperienza dovrebbe averne, non vi pare? Ma, del resto, sapete come si dice? Ne sa più un pazzo in casa propria, che cento savii in quella degli altri.
" E Stellina? Stellina? " avrebbe voluto domandar Pepè. " Ride, canta, scherza coi Salvo, coi Garofalo, mentr'io sono qua inchiodato a letto per lei? "



X

Quante spine da quel giorno ebbe il letto per il povero Pepè!
- Mi dica, dottore, quando potrò alzarmi? Non ne posso più!
Ma il medico non gli dava retta: si tratteneva da lui pochi minuti, costernato di ben altro: del grave rischio che correva in quel momento la signora Filomena. E il Coppa che non se ne voleva dar per inteso, pretendendo dal medico la guarigione della moglie, come se, avendo sofferto e speso tanto per lei, si credesse in diritto di non perderla! Da una settimana non chiudeva occhio, non prendeva se non qualche raro cibo, lì accanto al letto, forzato dalla stessa moglie, da cui non distraeva lo sguardo un solo minuto. Credeva veramente di lottare così contro la morte, e non gli pareva possibile che questa gli portasse via la moglie da sotto gli occhi mentre egli teneva lì ferma, vigile, agguerrita in difesa di lei la propria volontà. Non ascoltava nessuno, per non allentare d'un attimo quella tensione violenta di tutte le forze del suo essere, a guardia dell'inferma. E se il medico gli diceva qualche cosa:
- Non so nulla, - gli rispondeva invariabilmente.
- Fate voi: il responsabile siete voi. Io sto qua. Non mi lamento di nulla.
Ma alla fine il medico chiese un consulto e, avuta dai colleghi l'assicurazione d'aver fatto quant'era possibile per l'inferma, volle declinare ogni responsabilità. La signora Filomena era spacciata.
Ciro Coppa scacciò via il medico svillaneggiandolo; poi, sembrandogli che lì, in quella casa, dove la scienza di fronte alla morte si era data per vinta, la difesa della moglie fosse già compromessa, tratto dall'armadio un abito della moglie:
- Tieni, subito, vèstiti, - le disse. - Ti guarisco io! Andiamo in campagna: aria aperta, passeggiate... Lo insegnerò io a questi ciarlatani impostori come si salvano i malati! Vuoi che t'ajuti a vestirti? Per carità, Filomena, non avvilirti! non farmi questo tradimento! Tu mi vuoi bene... Io...
Un nodo di pianto gli strozzò improvvisamente in gola la voce. La moglie aveva chiuso gli occhi con lenta pena alla disperata esortazione di lui: due lagrime le sgorgarono dalle pàlpebre e le rigarono il volto. Gli fe' cenno d'accostarsi al letto. Ciro accorse angosciato, vibrante dallo sforzo con cui soffocava la violenta commozione. E allora la moribonda gli passò un braccio intorno al collo e con la mano malferma gli carezzò i capelli.
- Fammi una grazia, - gli mormorò: - Un confessore...
Ciro, chino sul seno di lei, ruppe in un pianto furibondo, come se il cordoglio, mordendolo, l'avesse arrabbiato.
- Non hai più fiducia in me, Filomena? - ruggì tra i singhiozzi irrompenti. Poi, levandosi scontraffatto, terribile: - E che peccati puoi aver tu su la coscienza, da confidare sotto il suggello della confessione?
- Peccati, e chi non ne ha, Ciro? - sospirò la moribonda.
Egli uscì dalla camera con le mani afferrate ai capelli. Ordinò alla serva di chiamare un prete.
- Vecchio! Vecchio! - le gridò; e scappò via di casa per non assistere a quella confessione.
Per circa due ore, alla Passeggiata, andò in sù e in giù sotto gli alberi, scervellandosi a immaginare i peccati, che la moglie in quel momento confessava al prete.
Che peccati?... che peccati? Peccati di pensiero, certo... peccati d'intenzione... Chi aveva mai veduto sua moglie?... Cose antiche? peccati antichi!...
E passeggiava con le mani avvinghiate alle reni, il volto contratto dalla gelosia e gli occhi che schizzavano fiamme.
Nella notte, Filomena morì. Pepè volle a ogni costo alzarsi per vedere un'ultima volta e baciare in fronte la sorella. Ciro si era chiuso nella camera dei figliuoli mandati dalla nonna, e buttato su un lettuccio, mordeva e stracciava i guanciali per non urlare.
Il giorno dopo ordinò che si apparecchiasse la tavola, e mandò a riprendere i figliuoli dalla nonna. La vecchia serva lo guardò negli occhi, temendo che fosse impazzito.
- La tavola! - le gridò Ciro di nuovo. - E apparecchia anche il posto per la tua signora.
Volle che tutti, Pepè e i due figliuoli, sedessero con lui a desinare.
- Qua comando io! - gridava, battendo i pugni su la tavola, e brum! bicchieri, posate, ballavano. - Qua comando io! Pensate che dispiacere avrebbe Filomena, se sapesse che per causa sua oggi i suoi figliuoli restano digiuni! Mangiamo!
Fece prima la porzione alla moglie, come al solito. Poi volle dare il buon esempio, mangiando lui per primo; ma, appena portatosi alle labbra il cucchiajo, sbruffava, si cacciava in bocca il tovagliolo e, addentandolo, gridava con voce soffocata:
- Filomena! Filomena!
Però, appena i figliuoli sbalorditi si mettevano a strillar con lui: brum! altri pugni su la tavola.
- Zitti, perdio! Qua comando io! Mangiate! Non fate dispiacere, ragazzi, a vostra madre! Ella è qua, qua che ci assiste... qua che ci vede tutti... qua che soffre, se non vi vede mangiare per una giornata, ragazzi miei... Mangiate! mangiate!



XI

Del bruno per la sorella e del pallore lasciatogli dalla lunga convalescenza Pepè trasse partito per apparire più " interessante " agli occhi di Stellina, come se avesse vestito il bruno per lei andata a nozze con un altro.
Si recò in casa dell'Alcozèr in via di Porta Mazzara la prima sera che gli fu concesso andar fuori. Salendo la scala, si sentiva battere così forte il cuore che, a ogni cinque o sei scalini, doveva fermarsi a riprender fiato. Pervenuto al penultimo pianerottolo, fu crudelmente ferito dalla voce di Stellina che cantava una romanza, accompagnata a pianoforte da Mauro Salvo: senza dubbio.
- Canta, canta, ingrata!
S'appoggiò al muro e si strinse forte gli occhi con una mano.

...continua


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