In silenzio

Appena fuori, il suo primo pensiero fu quello di buttar via la borsetta in qualche angolo nascosto. Ma quell'ultima notizia che gli avevano dato della vecchia nel caffè, che ella cioè era una poveretta mezzo impazzita per la morte della figliuola, gli fece stimare più che mai indegno quell'atto. Pur ammesso che la vecchia avesse avuto il sospetto ch'egli volesse tenersi la borsetta trovata, questo sospetto in fondo non era ingiusto, poiché egli veramente, contro la sua volontà, ridendo prima come uno scemo, poi scostandosi e alzandosi per farla cercar lì nel posto, aveva agito come se in realtà avesse voluto appropriarsi quella borsetta. E buttandola via, ora, non avrebbe avuto sempre la colpa della sottrazione? L'avrebbe trovata un altro, che non avrebbe sentito l'obbligo di restituirla, l'obbligo che ne aveva lui, lui che conosceva a chi essa apparteneva e gliel'aveva negata in faccia. No, no: buttarla via sarebbe stato un atto anche più vile di quel che aveva dianzi commesso. Pensò allora che quei pochi avventori del caffeuccio e il caffettiere avevano dovuto accorgersi dal suo portafogli ben fornito ch'egli era un signore, un signore il quale poteva permettersi il lusso d'offrire a quella povera vecchia un compenso di dieci o venti lire per la borsetta perduta. Ecco, sì. Avrebbe lasciato al banco venti lire alla presenza di quei testimoni, o avrebbe domandato al caffettiere l'indirizzo della vecchia per recarsi lui stesso a dargliele.
E il Noccia ritornava con questo proposito sui proprii passi, quand'ecco, lì presso l'entrata del caffeuccio, di nuovo la vecchia che, tenendosi con ambo le mani i cerfugli lanosi spioventi su gli occhi, andava curva e piangente, guardando in terra, ancora in cerca della sua borsetta. Il Noccia la fermò, toccandole lievemente una spalla, trasse dal portafogli due biglietti da dieci lire e, tutto commosso per la buona azione che faceva, glieli porse, balbettando che li accettasse per la perdita sofferta. Ma si vide tutt'a un tratto acciuffato dalla vecchia, la quale, scrollandolo furiosamente, si mise a strillare:
- Venti lire? A chi le dai? Ah, ladro! E il resto? Venti lire sole mi dai? Al ladro! al ladro!
Accorse gente da tutte le parti, accorsero anche due guardie di questura e al Noccia che, dapprima stordito, poi abbrancato da cento braccia aveva preso a divincolarsi inferocito, fu trovata addosso la borsetta, nella quale, sissignori, c'era la piastra da cinque, ma c'erano anche due vecchi marenghi da venti lire e non due monetine da due centesimi, come al Noccia era sembrato a prima vista, là, nel caffeuccio. Perciò la vecchia reclamava con tanta rabbia il resto.
Ma anche cento lire, anche duecento, anche mille, gliene avrebbe date ora il Noccia. E cavava dalla tasca il portafogli. Se non che, anche quel portafogli, come la borsetta siamo giusti, poteva ormai credersi rubato. E il Noccia fu trascinato in questura.
Ora, è certo che a un ladro non passa per il capo di restituire una parte del suo furto. Ma anche generalmente si crede che neppure a un galantuomo possa passare per il capo di mettersi in tasca una borsetta che non gli appartiene, e di negarlo poi in faccia, così come il Noccia aveva fatto. Bisognava dunque trattenerlo in arresto e domandare ragguagli in Sicilia sul conto di lui. Non sarebbe stato serio prestar fede alla persecuzione di un certo spirito maligno, di cui quell'arrestato farneticava.



ALLA ZAPPA!

Il vecchio Siròli da più di un mese sembrava inebetito dalla sciagura che gli era toccata, e non riusciva più a prender sonno. Quella notte, allo scroscio violento della pioggia, s'era finalmente riscosso e aveva detto alla moglie, insonne e oppressa come lui:
- Domani, se Dio vuole, romperemo la terra.
Ora, dall'alba, i tre figliuoli del vecchio, consunti e ingialliti dalla malaria, zappavano in fila con altri due contadini giornanti. A quando a quando, ora l'uno ora l'altro si rizzava sulla vita, contraendo il volto per lo spasimo delle reni, e s'asciugava gli occhi col grosso fazzoletto di cotone.
- Coraggio! - gli dicevano i due giornanti. - Non è caso di morte, alla fine.
Ma quello scoteva il capo; poi si sputava su le mani terrose e incallite e si rimetteva a zappare.
Dal folto degli alberi sulla costa veniva a quando a quando come un lamento, rabbioso. Il vecchio, ancora valido, attendeva di là alla rimonda e accompagnava così, con quel lamento, la sua dura fatica.
La campagna, infestata nei mesi estivi dalla malaria, pareva respirasse, ora, per la pioggia abbondante della notte, che aveva fatto «calar la piena» el burrone. Si sentiva infatti, dopo tanti mesi di siccità, scorrere il Drago con allegro fragore.
Da circa quarant'anni Siròli teneva a mezzadria queste terre di Sant'Anna. Da molte stagioni, ormai, lui e la moglie erano riusciti a vincere il male e a rendersene immuni. Se Dio voleva, col volgere degli anni, i tre figliuoli che adesso ne pativano avrebbero acquistato anch'essi la immunità. Tre altri figliuoli però, due maschi e una femmina, ne erano morti e morta era anche la moglie del primo figliuolo, di cui restava solamente una ragazzetta di cinque anni, la quale forse non avrebbe resistito neppur lei agli assalti del male.
- Dio è il padrone, - soleva dire il vecchio, socchiudendo gli occhi. - Se lui la vuole, se la prenda. Ci ha messo qua; qua dobbiamo patire e faticare.
Cieco fino a tal punto nella sua fede, si rassegnava costantemente a ogni più dura avversità, accettandola come volere di Dio. Ci voleva soltanto una sciagura come quella che gli era toccata, per accasciarlo e distruggerlo così.
Pur avendo bisogno di tante braccia per la campagna, aveva voluto far dono a Dio di un figliuolo. Era il sogno di tanti contadini avere un figlio sacerdote; e lui era riuscito ad attuarlo, questo sogno, non per ambizione, ma solo per averne merito davanti a Dio. A forza di risparmii, di privazioni d'ogni sorta, aveva per tanti anni mantenuto il figlio al seminario della vicina città; poi aveva avuto la consolazione di vederlo ordinato prete e di sentire la prima messa detta da lui.
Il ricordo di quella prima messa era rimasto incancellabile nell'anima del vecchio, perché aveva proprio sentito la presenza di Dio quel giorno, nella chiesa. E gli pareva di vedere ancora il figlio, parato per la solennità con quella splendida pianeta tutta a brusche d'oro, pallido e tremante, muoversi piano piano su la predella dell'altare, davanti al tabernacolo; genuflettersi; congiungere le mani immacolate nel segno della preghiera; aprirle; poi voltarsi, con gli occhi socchiusi verso i fedeli per bisbigliare le parole di rito, e ritornare al messale sul leggio. Non gli era mai parso così solenne il mistero della messa. Con l'anima quasi alienata dai sensi, lo aveva seguìto e ne aveva tremato, con la gola stretta da un'angoscia dolcissima; aveva sentita accanto a sé piangere di tenerezza la moglie, la sua santa vecchia, e s'era messo a piangere anche lui, senza volerlo, irrefrenabilmente, prosternandosi fino a toccare la terra con la fronte, allo squillo della campanella, nell'istante supremo dell'elevazione.
D'allora in poi, egli, di tanto più vecchio, e provato e sperimentato nel mondo, s'era sentito quasi bambino di fronte al figlio sacerdote Tutta la sua vita, trascorsa tra tante miserie e tante fatiche senza una macchia, che valore poteva avere davanti al candore di quel figlio così vicino a Dio? E s'era messo a parlare di lui come d'un santo, ad ascoltarlo a bocca aperta, beato, quand'egli veniva a trovarlo in campagna dal Collegio degli Oblati, dove per l'ingegno e per lo zelo era stato nominato precettore. Gli altri figliuoli, destinati alle fatiche della campagna, esposti lì alla morte, non avevano invidiato per nulla la sorte di quel loro fratello, s'erano anzi mostrati orgogliosi di lui, lustro della famiglia. Infermi, s'erano tante volte confortati col pensiero che c'era Giovanni che pregava per loro.
La notizia che costui s'era macchiato d'un turpe delitto su i poveri piccini affidati alle sue cure in quell'orfanotrofio, era pertanto piombata come un fulmine su la casa campestre del vecchio Siròli. La madre, dapprima, nella sua santità patriarcale, non aveva saputo neanche farsi un'idea del delitto commesso dal figliuolo: il vecchio marito aveva dovuto spiegarglielo alla meglio; e allora ella ne era rimasta sbalordita, inorridita e pur quasi incredula:
- Giovanni? Che mi dici?
Il Siròli s'era recato in città per avere notizie più precise e con la speranza segreta che si trattasse d'una calunnia. S'era presentato a parecchi suoi conoscenti, e tutti, alla sua vista, s'erano turbati, quasi per ribrezzo; gli avevano risposto duramente, a monosillabi, schivando persino di guardarlo. Aveva voluto andare anche dal Lobruno, ch'era il padrone della terra ch'egli teneva a mezzadria. Il Lobruno, uomo intrigante, consigliere comunale, amico di tutti, del vescovo e del prefetto, lo aveva accolto malamente, su le furie:
- Ben vi sta! ben vi sta! Sacerdote, eh? Da zappaterra a sacerdote. Siete contento, ora? Ecco i frutti della vostra smania di salire a ogni costo, senza la preparazione, senza l'educazione necessaria!
Poi s'era calmato, e aveva promesso che avrebbe fatto di tutto perché lo scandalo fosse soffocato.
- Per il decoro dell'umanità, intendiamoci! per il rispetto che dobbiamo tutti alla santa religione, intendiamoci! Non per quel pezzo di majale, né per voi!
E il povero vecchio se n'era ritornato in campagna come un cane bastonato; certo ormai che il delitto del figliuolo era vero; che Giovanni, l'infame, era fuggito, sparito dalla città, per sottrarsi al furore popolare; e che lui ormai, sotto il peso di tanta ignominia, non avrebbe avuto più pace né il coraggio di alzare gli occhi in faccia a nessuno.
Ora, inerpicato su gli alberi, attendeva alla rimonda. Nessuno lì lo vedeva e, lavorando, poteva piangere. Non aveva più versato una lagrima, da quel giorno. Considerava la propria vita intemerata, quella della sua vecchia compagna, e non sapeva farsi capace come mai un tal mostro fosse potuto nascere da loro, come mai si fosse potuto ingannare per tanti anni, fino a crederlo un santo. E s'era inteso di farne un dono a Dio! e per lui, per lui aveva sacrificato gli altri figliuoli, buoni, mansueti, divoti; gli altri figliuoli che ora zappavano di là, poveri innocenti non ben rimessi ancora dalle ultime febbri. Ah, Dio, così laidamente offeso da colui, non avrebbe mai, mai perdonato. La maledizione di Dio sarebbe stata sempre su la su casa. La giustizia degli uomini si sarebbe impadronita di quel miserabile, scovandolo alla fine dal nascondiglio ov'era andato a cacciare la sua vergogna; e lui e la moglie sarebbero morti dall'onta di saperlo in galera.
A un tratto, al vecchio, assorto in queste amare riflessioni, giunse la voce d'uno dei figliuoli: di Càrmine, ch'era il maggiore.
- O pa'! Venite! È arrivato!
Il Siròli ebbe un sussulto, s'aggrappò al ramo dell'albero su cui si teneva in equilibrio e si mise a tremar tutto! Giovanni? Arrivato? E che voleva da lui? E come aveva potuto rimetter piede nella casa di suo padre? alzar gli occhi in faccia alla madre?
- Va'! - gridò in risposta, furente, squassando il ramo dell'albero, - corri a dirgli che se ne vada, subito! Non lo voglio in casa, non lo voglio!
Carmine guardò negli occhi gli altri fratelli per prender consiglio, poi si mosse verso la casa campestre, facendo segno alla nipotina orfana, che aveva recato tutta esultante la notizia dell'arrivo dello zio prete, di precederlo.
Nella corte, Càrmine trovò un campiere del Lobruno seduto sul muretto accanto alla porta. Evidentemente il prete era arrivato con lui.
- Tuo padre? - domandò il campiere a Càrmine, sollevando il capo e un virgulto che teneva in mano e col quale, aspettando, era stato a percuotere un piccolo sterpo cresciuto lì tra i ciottoli della corte.
- Non vuol vederlo, - rispose Càrmine, - né lo vuole in casa. Sono venuto a dirglielo.
- Aspetta, - rispose il campiere. - Torna prima da tuo padre e digli che ho da parlargli a nome del padrone.
Càrmine aprì le braccia e tornò indietro. Il campiere allora chiamò a sé la piccina che guardava con tanto d'occhi, non sapendo che pensare di tutto quel mistero, come mai non fosse festa per tutti l'arrivo dello zio prete, se la prese tra le gambe e borbottò con un tristo sorriso sotto i bafffi:
- Tu sta' qua, carina, non entrare. Sei piccina anche tu, e... non si sa mai!
Poco dopo Càrmine ritornò, seguito dai due fratelli.
- Adesso viene, - annunziò al campiere; ed entrò coi fratelli nell'ampia stanza terrena, umida e affumicata.
In un lato, era la mangiatoja per le bestie: un asino vi tritava pazientemente la sua razione di paglia. Nel lato opposto, era un gran letto, dai trespoli di ferro non bene in equilibrio su l'acciottolato della stanza in pendìo: vi si buttavano a dormire i tre fratelli, non mai tutti insieme, giacché ora l'uno ora l'altro passava la notte all'aperto, di guardia. Il resto della stanza era ingombro di attrezzi rurali. Una scaletta di legno conduceva alla camera a solajo, dove dormivano i due vecchi e l'orfana.
Giovanni, seduto sulle tavole del letto, stava col busto ripiegato sulle materasse abballinate e con la testa affondata tra le braccia. La vecchia madre teneva gli occhi fissi su lui e piangeva, piangeva senza fine, in silenzio, come se tutto il cuore, tutta la vita che le restava volesse sciogliere e disfare in quelle lagrime.
Sentendo entrare gente, il prete alzò il capo e lanciò una occhiata bieca, poi raffondò la testa tra le braccia. I tre fratelli gl'intravidero così il volto cangiato, pallido tra la barba ispidamente cresciuta: lo mirarono un pezzo con un senso di ribrezzo e di pietà insieme, gli videro la tonaca qua e là strappata; poi, abbassando gli occhi, notarono che gli mancava la fibbia d'argento a una scarpa.
La vecchia madre, vedendo gli altri tre figliuoli, ruppe in singhiozzi e si coprì il volto con le mani.
- Ma', zitta, ma'! - le disse Càrmine, con voce grossa; e sedette su la cassapanca presso il letto, insieme con gli altri fratelli, in attesa del padre, taciturni.
Avevano tutt'e tre la faccia gialla, tutt'e tre con le berrette a calza, nere, ripiegate sul capo, e tutt'e tre, sedendo in fila, avevano preso lo stesso atteggiamento.

...continua


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