L'esclusa

Erano marito e moglie da tre mesi. Da un anno soltanto era morto il primo marito di donna Maria Rosa, don Isidoro Juè, detto don Dorò, fratello maggiore di don Fifo. E donna Maria Rosa, durante la lunga visita, non parlò che del marito defunto e del suo primo matrimonio, con le lagrime agli occhi e nella voce, come se don Dorò fosse morto ieri. Don Fifo, immobile, ascoltava con gli occhi bassi e le braccia conserte quell'eterno elogio funebre del fratello, di cui egli pareva il sarcofago e la moglie il cenotafio.
Ah, nessuno, nessuno avrebbe saputo ridire tutte le virtù di don Dorò (LE VELTù - diceva donna Maria Rosa per parlare in lingua). Ella e don Fifo, mentre Dorò viveva, si erano data la mano per circondarlo di cure e di rispetto. Egli, Dorò, era stato la loro guida nella vita, il loro maestro. Marito, moglie e cognato erano vissuti sempre insieme, un'anima in tre corpi.
- Nella pace degli angeli, signora mia!
E Dorò stesso, con le sue labbra, sant'anima! morendo, aveva balbettato ai due infelici superstiti: - Fifo, - dice, - ti raccomando Maria Rosa! Consolatevi! Consolatevi! Seguitate a vivere l'uno per l'altra...
- Ah, signora mia! - proruppe a questo punto donna Maria Rosa già al colmo della commozione, ricordando quelle parole e asciugandosi gli occhi che erano divenuti due fontane di lagrime, con un fazzoletto listato di nero. - Noi del resto, - riprese poco dopo, rassettatasi alquanto e soffiatosi strepitosamente il naso, - noi, del resto, abbiamo domandato consiglio, signora mia, a tutti i conoscenti, uno per uno, raccomandando che ci ajutassero con la loro esperienza, che ci dicessero coscienziosamente ciò che avremmo dovuto fare noi due poveretti rimasti soli, senza la Sant'anima! La nostra condizione era questa: cognati... e dovevamo vivere insieme, sotto lo stesso tetto... la gente avrebbe potuto sparlare... E tutti, tanto buoni, bisogna dire la verità, ci hanno consigliato di far questo passo, tutti! Siamo entrambi d'una certa età, è vero; ma sa, signora mia, la maldicenza com'è? dove non può mettere i piedi, mette le scale... E in questa città poi...
- Oh, da per tutto! - sospirò la signora Agata.
- Da per tutto, da per tutto, dice bene, signora mia... Così, ci siamo sposati ch'è poco... Abbiamo dovuto aspettare i nove mesi prescritti dalla legge, benché per me, sa, non ci fosse pericolo, come volevo far notare ai signori del Municipio: figli, niente; Dio non m'ha voluto consolare; Dorò malaticcio sempre e deboluccio, signora mia... Basta, ci siamo sposati.
Don Fifo pareva tutto appiccicato, e che, movendosi a parlare, si spiccicasse tutto: le labbra, la lingua, le palpebre, le pinne del naso. Soltanto le gambe gli restavano appiccicate l'una all'altra. Ma, in fin dei conti, non parlò molto. A un certo pulito, ruppe in questa esclamazione:
- Ah, dolori, signora, dolori! Cristo solo lo sa!
E per poco Marta e Maria non scoppiarono a ridergli in faccia.

Parte 2,2

Marta avrebbe voluto rifare tanto alla madre quanto a Maria la vita comoda e lieta d'una volta, allor che il padre viveva, e prosperava la concerìa. E non risparmiava sacrifizii e lavoro. Aveva ottenuto dalla Direttrice del Collegio di dare lezioni particolari alle piccole convittrici delle classi inferiori; e quel che traeva da queste lezioni e lo stipendio mensile dava intatto alla madre, a cui proibiva di lamentarsi della troppa fatica alla quale si sottoponeva giornalmente, senza godere più nulla dei frutti. Ma la madre s'ingannava. Marta non godeva? O non erano frutti del suo lavoro la rinata fiducia nella vita tanto della madre quanto della sorella, e la presente pace? non era premio al suo lavoro il sorriso che ora ritornava spontaneo alle loro labbra? Avrebbe dato il sangue delle vene per vederle ancora più contente, per godere della vista d'altri sorrisi su le loro labbra. E in fondo al cuore si sentiva inebriata della propria generosità, giacché ella nell'intimo suo non s'era mai acchetata all'offesa che il padre le aveva fatto, condannandola cecamente e precipitando la famiglia nella miseria.
L'unica passione di Maria pareva la musica? Ebbene, un pianoforte a Maria, quasi nuovo, da pagare a un tanto al mese. Tenere nella piccola dispensa le derrate per tutto un mese contribuiva a rendere più quieta e paga la madre? Ebbene, contenta anche la madre; e la piccola dispensa era sempre ben provvista.
Don Fifo Juè e la moglie salivano qualche sera a tenere compagnia alle tre donne, e il defunto Dorò continuava a fare le spese della conversazione.
Per loro mezzo Marta venne a sapere che la signora Fana, moglie del Pentàgora, viveva ancora nella più squallida miseria.
- Noi abbiamo una casa in via Benfratelli, signora mia, - disse una sera donna Maria Rosa, - e nell'ultimo piano, in due stanzette, abita una povera donna divisa dal marito. Il marito è un regnicolo delle loro parti... Forse loro lo conosceranno... si chiama... di', Fifo, ti rammenti?
- Fana: Stefana, - rispose Fifo spiccicandosi.
- No, dico lui, il marito...
- Ah, sì... aspetta, Pentàgono!
Maria rise involontariamente.
- Pentàgora, - corresse la signora Agata, per scusare il riso della figlia.
- Lo conoscono?
Donna Maria Rosa volle sapere che uomo fosse, e parlò a lungo della moglie infelice... Né Marta né la signora Agata riuscirono a farle cangiar discorso per quella sera.
Maria s'era ridata con fervore allo studio del pianoforte; e la sera, dopo cena, sonava, mentre la madre cuciva, e Marta nella stanza attigua correggeva i còmpiti di scuola.
Così chiusa, non vista dalla madre e dalla sorella, spesso Marta sospendeva l'ingrato lavoro e, coi gomiti appoggiati sul tavolino e la testa tra le mani, rimaneva attonita, quasi in un'ansia d'ignota attesa, o s'inteneriva fino alle lagrime alla patetica musica di Maria. Una profonda malinconia le stringeva la gola. Non pensava a nulla, e piangeva. Perché? Vago, ignoto dolore, pena d'indefiniti desiderii... Si sentiva un po' stanca, non di spirito, ma nel corpo: stanca... Mentre la madre e la sorella lodavano il suo coraggio, la paragonavano al padre per l'energia, per la volontà; a lei, quelle sere, quasi non riusciva ingrata la sua amarezza, quell'intenerimento indefinito che la faceva piangere e quel languore greve a cui abbandonava con triste voluttà le membra rilassate; la coscienza infine che in quel momento ella si faceva d'esser debole e donna... No, no: non era forte... E infatti, perché piangeva così? Oh, via, via: sciocchezze da bambina... E cercava il fazzoletto, scotendosi; e si rimetteva al lavoro, con nuova lena.
Di questa condizione di spirito di Marta né la madre né Maria s'accorgevano. Ella si guardava bene dal lasciarla trapelare; cercava anzi con ogni arte di non venire mai meno al concetto ch'esse si erano formato di lei. Il suo còmpito era questo, doveva esser questo. E aveva finanche nascosto alla madre una lettera di Anna Veronica, in cui si parlava a lungo di Rocco, delle furie di costui dopo la loro partenza, di minacce di nuovi scandali, di pazzie...
Perché affliggere la madre con tali notizie? E Marta aveva risposto ad Anna Veronica, che ella non si curava né voleva più sentir parlare di colui, prima sciocco, adesso pazzo; tristo prima e adesso.
Vedeva intanto la madre e la sorella ritornate alle abitudini, alla calma d'una volta, alla vita semplice e tranquilla di prima; e maggiormente, per forza di contrasto, sentiva penetrarsi dal convincimento che lei sola era l'esclusa, lei sola non avrebbe più ritrovato il suo posto, checché facesse; per lei sola non sarebbe più ritornata la vita d'un tempo. Altra vita: altro cammino... La pace, la felicità dei suoi, lo studio, la scuola, le alunne: ecco quello che le restava, ecco la meta del nuovo cammino... - null'altro!
Se ne doleva? No: erano momenti di passeggera tristezza. Dopo la fosca invernata, durante la quale il colore del tempo s'era accordato coi suoi pensieri, si ridestava adesso per quella nuova via al gaio sole di primavera, di cui un raggio era penetrato a frugare, a sommuoverle la torbida posatura di tanti dolori in fondo al cuore: ed era triste per questo; o era effetto della lettera di Anna Veronica o della musica di Maria?
Non voleva più curarsi di sé. La madre si era rimessa a pettinarla ogni mattina; ma lei non voleva che perdesse tanto tempo ad acconciarla.
- Basta, mamma, lascia, così va bene...
E allontanava lo specchietto a bilico che teneva sul tavolino, quasi infastidita della propria immagine, dello splendore intenso degli occhi, delle labbra accese. Se poi la madre la costringeva a stare ancora seduta, sotto il pettine, sbuffava dall'impazienza, diventava irrequieta, smaniosa, come se sottostesse a una tortura. Perché, a che pro, adesso, tanto studio e tanto amore per la sua acconciatura? Non intendeva la madre che a lei, adesso, non doveva importare proprio nulla di comparire più o meno bella?
E un giorno che la madre volle provarle i ricci sulla fronte, non ostante le vivaci ripulse, terminata l'acconciatura, Marta piangeva.
- Come? Piangi? Perché? - le domandò, sorpresa, la madre.
Marta si sforzò di sorridere, asciugandosi gli occhi.
- Per nulla... Non ci badare...
- Santa figliuola, ma perché? Ti stanno tanto bene...
- No, non voglio... Disfa', disfa'... Sta meglio senza.
Non era una crudeltà incosciente della madre? E intanto, ella, che bambina! Piangere così, per nulla, in presenza di lei...
Durante il giorno si mostrò più vivace del solito, per cancellare l'impressione di quelle lagrime nell'animo della madre.
Provava un turbamento nuovo, un incomprensibile timore, un'apprensione strana, adesso, nel vedersi sola, senza nessuno accanto, per le vie aperte, tra la gente che la guardava.
Nessuno, è vero, l'aveva molestata; ma si sentiva ferita da tanti sguardi; le pareva che tutti la guardassero in modo da farla arrossire; e andava impacciata, a capo chino, mentre gli orecchi le ronzavano e il cuore le batteva forte. Perché? E come mai, tutt'a un tratto, la sua presenza di spirito s'era rintanata così in quello sciocco timore? di che temeva? non aveva tante volte riso di certe zitellone che avevano ritegno a uscire sole per la città paventando a ogni passo un attentato al loro pudore?
Pure, appena entrata nel Collegio, si rinfrancava. E la presenza di spirito le ritornava di fronte ai tre professori, che spesso trovava in sala, e coi quali scambiava qualche parola, prima che ciascuno si recasse a impartire la propria lezione nelle varie classi.
S'era accorta che due di essi intendevano farle velatamente, e ciascuno a suo modo, la corte. E non che temerne, ne rideva tra sé; fingeva di non accorgersi proprio di nulla, e pigliava a goderseli segretamente, notando il vario effetto che il suo contegno produceva in quei due.
Il professor Mormoni, Pompeo Emanuele Mormoni, autore di ben quattordici volumi in ottavo di Storia Siciliana, CON APPENDICE DEI NOMI E DEI FATTI PIù MEMORABILI, CON DATE E LUOGHI, alto, grasso, bruno, dai grand'occhi neri e dal gran pizzo qua e là appena brizzolato come i capelli, dignitoso sempre nella sua napoleona e col cappello a stajo, si gonfiava dal dispetto come un tacchino e, così gonfio, pareva volesse dire a Marta: "Oh, sai, carina? se tu non ti curi di me, neanch'io di te: non t'illudere!". Ma se ne curava, invece, e come! e quanto! Certi momenti pareva fosse lì lì per scoppiare. Aveva finanche perduto, sedendo, i suoi atteggiamenti monumentali, per cui tutte le seggiole diventavano quasi tanti piedistalli per lui: "SCOLPITEMI COSì!".
Marta di tanto in tanto sentiva scricchiolare la seggiola, su cui il Mormoni stava seduto, e tratteneva a stento un sorriso. Tutte le seggiole della sala d'aspetto, da un mese a quella parte, erano sfilate; a una era saltata la cartella, a un'altra qualche stecca.
Attilio Nusco, l'altro insegnante, chiamato comunemente nel Collegio il PROFESSORICCHIO, era al contrario fino fino, piccolo, gracile, timido, tutto vibrante, tutto impacciato. Povero Nusco, come se diffidasse di trovare il suo posticino nella vita, pareva che con lo sguardo, coi sorrisi, con gl'inchini frettolosi della miserrima personcina, volesse accaparrarsi il favore degli altri, per non essere cacciato via. E occupava, sedendo, il minor posto possibile (SCUSI! SCUSI!); parlando, la voce gli tremava; non contraddiceva mai nessuno; era come imbarazzato sempre dall'eccessiva sua compitezza. Avrebbe voluto pesare su gli altri meno che un fuscellino di paglia. E intanto, il cuore... Ah, quella Marta: non s'accorgeva proprio di nulla?
Il poveretto si provava man mano a uscire un tantino dalla propria timidezza, come dalla tana una lucertolina insidiata: prima la punta del musetto; poi un altro tantino, fino agli occhi; poi tutta la testina, quasi aspettando d'esser colta dal cappio alla posta.
Si era spinto a temerità inaudite: fino a domandare a Marta, sudando: - SENTE FREDDO STAMANI? -. Portava a scuola qualche primo fiore della stagione; ne rigirava il gambo tra le gracili dita irrequiete; ma non ardiva offrirlo.

...continua


Consult the complete list of available texts.

This site uses the texts available on the web sites LiberLiber and Project Gutenberg where you can download them for free.

Share Share on Facebook Share on Twitter Bookmark on Reddit Share via mail
Privacy Policy Creative Commons Attribution-Share Alike Trovami