La giara

Non era mica certa, Tudina, che quel suo patrigno fosse vero, un uomo vero, di carne e ossa come tutti gli altri, e non piuttosto una larva d'uomo, un'ombra che un soffio poteva portar via. Lo vedeva parlare, sorridere; ma che dicesse, perché o di che sorridesse, non capiva neanche lei. Non capiva perché talvolta gli brillassero gli occhi chiari dietro il velo perenne delle lagrime. E non sapeva credere che le dita tremicchianti di quelle manine esangui avessero tatto, da sentir le cose che toccavano, o ch'egli avvertisse il gusto dei cibi che mangiava, o che in quella testa candida si potessero volgere pensieri. Le pareva quasi aereo, quel patrigno, un uomo che per sé, di suo, non avesse nulla, a cui tutto venisse di combinazione, non perché lui facesse qualche cosa per averlo, ma perché gli altri glielo davano, quasi per ridere, per il gusto di vedere come stava così parato e messo su, con quella camicia, con quel cappello, con quelle scarpe, con quei calzoni, con quel pastrano: tutto, sempre, troppo largo, tanto largo che vi sembrava dentro perduto.
Quegli abiti, quel cappello, quelle scarpe conservavano tutti qualche cosa della loro provenienza; Tudina li riconosceva per quelli di Tizio o di Cajo; ma chi era, che consistenza aveva colui che li portava?
Mai una camicia di suo; mai un pajo di scarpe fatte per i suoi piedi; mai un cappello che gli calzasse giusto in capo!
La miseria, l'incertezza d'ogni stato, quel vederlo andare sempre vagabondo quasi per aria, smarrito, dietro a faccende vane, con quel ronzio di parole senza senso su le labbra tra i risolini e le lagrime, le davano quell'idea dell'irrealità di lui, non solo, ma anche di se stessa e di tutto. Dove, in che poteva toccarla, la realtà, lei, in quella perpetua precarietà d'esistenza, se attorno e dentro di lei tutto era instabile e incerto, se non aveva niente né nessuno a cui appoggiarsi?
E Tudina balzava talvolta d'improvviso a stracciare, a rompere, a fracassare, un fascio di carte, un viso, un qualunque oggetto, che stranamente a poco a poco le s'avvistasse davanti agli occhi; così, apparentemente per un impeto selvaggio, ma in realtà per un bisogno istintivo, incosciente, di togliersi dinanzi e distruggere certe cose di cui non riusciva a cogliere il senso e il valore, o di sperimentare la sua presenza, la sua forza contro di esse, per il dispetto ch'esse le facevano nel vedersele star lì davanti, ecco, come se lei non ci fosse, come se lei, volendo, non le potesse stracciare, rompere, fracassare. Quel vaso lì... ma sì che lei poteva da lì metterlo qui, e da qui lì, e anche sbatterlo forte, così, sul divanzale della finestra, e fracassarlo... ecco fatto... Perché? Ma per niente... così... perché le faceva dispetto! Invece per certi altri oggetti tenui, labili, minuscoli, di nessun valore, un pezzetto di carta velina colorata, un chicco di vetro, un bottone di camicia di finta madreperla, aveva protezione, cura, delicatezza infinita: li lisciava con un dito e se li metteva fra le labbra. E certi giorni non finiva mai di carezzarsi con le dita i folti riccioli neri, asserpolati sul capo, allungandoli pian piano e poi lasciandoli riasserpolare, non per civetteria, ma per il piacere che le dava quella carezza; cert'altri giorni al contrario se li stracciava col pettine rabbiosamente.

Bonaventura Camposoldani non aveva mai badato a quella figliastra di Geremia.
Le donne non entravano, se non per poco e di passata, nella sua vita. Tutt'al più, la donna, ecco, così in astratto, la donna come questione sociale, il problema giuridico della donna, sì, un giorno o l'altro avrebbe potuto interessarlo. Era un problema, una questione sociale come un'altra, da studiare, a cui attendere; e poteva entrare nel campo della sua attività: non da risolvere, Dio guardi!
Se tutti i problemi sociali, come a mano a mano sorgono dalla vita e s'impongono all'attenzione e allo studio dei commessi pensatori, si risolvessero in quattro e quattr'otto, addio professione!
E vero, sì, che la vita è prolifica di problemi sociali e se qualcuno per miracolo se ne risolve, ne sorgono subito altri due o tre nuovi; ma è una fatica, mettersi ogni volta daccapo a pensare a un problema nuovo, quand'è così comodo adagiarsi nei vecchi, bastando al pubblico che i problemi sociali sieno posti e il sapere che c'è chi pensa a risolverli. Si sa che è proprio di tutti i problemi sociali esser posti e non mai risolti. I problemi nuovi, del resto, hanno questo di male, che sono avvertiti soltanto da pochi in principio. Non era dunque per lui, che non aveva ancora un ufficio fisso, stabilmente retribuito e con diritto a pensione, per cui si sarebbe potuto prendere il lusso di studii sempre nuovi e difficili, di lente e accorte preparazioni. Egli professava liberamente, creando circoli, istituzioni accanto a quelli dello Stato; e aveva perciò bisogno di problemi posti da lunga data, di cui fosse largamente riconosciuta la gravità.
Ne aveva uno per le mani, che prima d'esser risolto, non una vita, ma gli avrebbe dato tempo di viverne dieci di novant'anni ciascuna! Il guajo era che i denari della tombola telegrafica, purtroppo, si assottigliavano di giorno in giorno...
S'accorse di Tudina per quello straccetto bagnato messo ad asciugare sul mezzo busto di Dante Alighieri. La prima volta che lo vide corse a farle in camera una severa riprensione, ma non poté fare a meno di sorridere quando Tudina si mostrò stupita, che meritasse tanto rispetto quell'uomo lì con quel naso articciato, come se sentisse puzza.
Tudina interpretò il sorriso di lui come una concessione, e seguitò a stendere lo straccetto, non ostante le rinnovate riprensioni. Bonaventura Camposoldani interpretò questa pervicacia della ragazza come un'arte per attirar la sua attenzione, e una mattina, che si trovava di buon umore, entrò nella cameretta di lei per tirarle l'orecchio come a una bambina discola e impertinente, e dirle che non doveva farlo più, o che, se voleva farlo ancora... Ma Tudina si ribellò a quella tirata d'orecchio, respingendolo gagliardamente; Bonaventura Camposoldani si sentì allora eccitato alla lotta: l'afferrò; tutti e due si dibatterono, un po' ridendo, un po' facendo sul serio; finché Tudina, nel vedersi presa da lui come non s'aspettava affatto di potere esser presa, non diventò furibonda: urlò, morse, sgraffiò, dapprima; poi, non volendo concedere, si sentì costretta dal suo stesso corpo a cedere; e restò alla fine come esterrefatta nello scompiglio.
Basta, eh? Parentesi chiusa, per Camposoldani, o da riaprirsi una volta tanto, a comodo, poiché la ragazza abitava lì, nella cameretta accanto. Curiosa, però, tutta quella ribellione, dopo ch'ella lo aveva provocato... e poi, quello spavento... e ora, che? piangeva? oh là là, che storie! Basta, via! che c'era da piangere così? Geremia poteva sopravvenire da un momento all'altro, e perché dargli un dispiacere, povero vecchio, dopo che il fatto era fatto, e si poteva bene nascondere, e anche di nascosto seguitare... perché no? senza furie, con prudenza...
- Ah, brava! Così...
Tudina d'un balzo, come una tigre, gli era saltata al collo, e lo aveva abbracciato freneticamente, quasi volesse strozzarlo. Sentiva tanta vergogna... tanta... tanta... e voleva che quella sua vergogna egli la riparasse con tanto, tanto amore... sempre, perché sempre, se no, ella la avrebbe sentita, quella vergogna, e ne sarebbe morta, ecco.
Ma sì, ma sì... Intanto perché tremava così? perché piangeva così? Zitta, calma: c'era da godere, non da morire... Perché quella vergogna? Nessuno avrebbe saputo... Stava a lei, che nessuno sapesse...
A lei? Eh, fosse dipeso soltanto da lei, povera Tudina... Poteva non parlare, Tudina, non dirne nulla neanche a lui; ma, dopo tre mesi...
Bonaventura Camposoldani rimase per più di cinque minuti a grattarsi la fronte. Oh Dio! oh Dio! un figliuolo... da quella ragazza... in quelle circostanze... E che avrebbe fatto, ora, che avrebbe detto quel povero Geremia?

Da un giorno all'altro Camposoldani s'aspettava che il vecchio gli si parasse davanti a domandargli conto e ragione di quell'ignominiosa complicazione del suo alloggio gratuito con la figliuola nella sede dell'Associazione nazionale per la cultura del popolo. Stimando ormai inevitabile una scenata, avrebbe voluto che avvenisse al più presto, per uscirne comunque e togliersi questo pensiero.
Ogni mattina entrava con l'animo sospeso e costernato nella sala, si faceva all'uscio della cameretta ove abitavano il padre e la figliuola; guardava accigliato l'uno e l'altra, che lo accoglievano in desolato silenzio; e, stizzito, domandava quasi per provocarli:
- Nulla di nuovo?
Geremia chiudeva gli occhi e apriva le mani.
Quasi quasi Camposoldani lo avrebbe preso per il petto, gli avrebbe dato uno scrollone, gridandogli in faccia:
- Ma parla! Smuoviti! Dimmi quello che mi devi dire e facciamola finita!
Sicché, quando una mattina, alla sua solita domanda: - «Nulla di nuovo?» - Geremia, invece di chiudere gli occhi e aprir le mani, crollò più volte il capo in segno affermativo, Camposoldani non poté fare a meno di sbuffare:
- Ah, finalmente! Sentiamo!
Ma Geremia, placido placido, si cacciò una mano nella tasca interna della giacca, ne trasse un foglio di carta protocollo ripiegato in quattro e glielo porse.
- Che significa? - fece Camposoldani, guardando quel foglio spiegazzato, senza prenderlo.
Geremia si strinse nelle spalle e rispose:
- Non c'e altro...
- E che è questo?
- Non so. L'ha portato un ragazzino...
Camposoldani, con le ciglia aggrondate, prese rabbiosamente il foglio; lo spiegò; cominciò a leggere; a un tratto alzò gli occhi a fulminare Geremia.
- Ah! Hai fatto questo?
Era una domanda firmata da venticinque socii, perché fosse indetta al più presto un'adunanza. Capolista, il professor Agesilao Pascotti.
Geremia si portò le mani tremicchianti al petto e aprendo le squallide labbra al solito sorrisetto mesto e ragionevole:
- Io? - sospirò con un filo di voce. - Che c'entro io?
- Pezzo d'imbecille! - proruppe allora Camposoldani. - E giusto al Pascotti ti sei rivolto?
- Io?
- Che ti figuri che ci guadagnerai adesso? Vogliono i conti? Ma subito! Comincerai dal risponderne tu, intanto!
- Io?
- Tu, tu per il primo, caro! tu che da tant'anni vai seminando le ricevute delle tasse mensili senza riscuoterne l'importo! Pezzo d'imbecille, sono tutti morosi questi firmatarii qua, tutti... Cardilli, Voceri, Spagna, Falletri, Romeggi... Toh! uno solo no! Concetto Sbardi... O dove sei andato a pescarlo costui? Non sta in Abruzzo? Quello che scrive idega! È a Roma? Ah, è venuto qua? E ti sei rivolto a lui?
Investito così, il povero vecchio s'era provato più volte a interromperlo, con le mani protese, battendo continuamente le palpebre su gli occhietti acquosi. Pareva cascato dalle nuvole! Non sapeva nulla di nulla, proprio... Se la prendeva con lui?
All'improvviso sorse in mezzo, tra i due, Tudina, che ormai non pareva più lei. Gonfia, scarduffata, imbruttita, si levò davanti a Camposoldani come l'immagine viva dell'infamia commessa, del laido delitto di cui s'era macchiato. Che c'entrava il patrigno in quell'istanza? Che interesse poteva avere a metter su i socii contro di lui?
- E allora? - fece Camposoldani.
Come, donde era venuta fuori quell'istanza? a chi era saltato quel grillo? Per qual ragione, così tutt'a un tratto? Gente che non pagava più, gente che non s'era fatta più viva da tanto tempo...
Grattandosi nervosamente la bella barba nera spartita sul mento. Camposoldani s'immerse a considerare di nuovo quell'istanza che, dalla prima firma, poteva argomentarsi scritta tutta di pugno dal Pascotti stesso; lesse, rilesse più volte quella filza di nomi; alla fine levò il volto sorridente verso Geremia.
- Pascotti? - domandò quasi a se stesso.
E di nuovo si mise a considerare le firme. Una sola gli dava ombra: quella dello Sbardi abruzzese. Aveva sempre pagato, costui, puntualissimamente. Come si trovava lì con quegli altri a schiera? Gli faceva l'effetto d'un lupo tra un branco di pecore. Sì, era lui il nemico; lui, senza dubbio... Era venuto a Roma, era andato a trovare il Pascotti già vicepresidente, e tutti e due... Che volevano da lui? I conti? Padronissimi. Ma se lo Sbardi era andato a trovare Pascotti per eleggerlo comandante supremo della battaglia, era segno che, per lo meno, non sapeva parlare. E se mancava a lui il coraggio dell'accusa, il coraggio più difficile, lo avrebbe avuto il rotondo Pascotti? Via! Lo faceva ridere Pascotti.

...continua


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