La mosca

Condannato dal medico, dopo quella tremenda caldana, a stare per quaranta giorni al bujo, non s'illuse piú neanche lui che quel rimedio potesse giovare, e appena poté uscire di camera, si fece condurre allo studio, presso il primo scaffale. Cercò a tasto un libro, lo prese, lo aprí, vi affondò la faccia, prima con gli occhiali, poi senza, come aveva fatto quel giorno in vettura; e si mise a piangere dentro quel libro, silenziosamente. Piano piano poi andò in giro per l'ampia sala, tastando qua e là con le mani i palchetti degli scaffali. Eccolo lí, tutto il suo mondo! E non poterci piú vivere ora, se non per quel tanto che lo avrebbe ajutato la memoria!
La vita, non l'aveva vissuta; poteva dire di non aver visto bene mai nulla: a tavola, a letto, per via, sui sedili dei giardini pubblici, sempre e da per tutto, non aveva fatto altro che leggere, leggere, leggere. Cieco ora per la realtà viva che non aveva mai veduto; cieco anche per quella rappresentata nei libri che non poteva piú leggere.
La grande confusione in cui aveva sempre lasciato tutti i suoi libri, sparsi o ammucchiati qua e là sulle seggiole, per terra, sui tavolini, negli scaffali, lo fece ora disperare. Tante volte s'era proposto di mettere un po' d'ordine in quella babele, di disporre tutti quei libri per materie, e non l'aveva mai fatto, per non perder tempo. Se l'avesse fatto, ora, accostandosi all'uno o all'altro degli scaffali, si sarebbe sentito meno sperduto, con lo spirito meno confuso, meno sparpagliato.
Fece mettere un avviso nei giornali, per avere qualcuno pratico di biblioteche, che si incaricasse di quel lavoro d'ordinamento. In capo a due giorni gli si presentò un giovinotto saccente, il quale rimase molto meravigliato nel trovarsi davanti un cieco che voleva riordinata la libreria e che pretendeva per giunta di guidarlo. Ma non tardò a comprendere, quel giovanotto, che - via - doveva essere uscito di cervello quel pover'uomo, se per ogni libro che gli nominava, eccolo là, saltava di gioja, piangeva, se lo faceva dare, e allora, palpeggiamenti carezzevoli alle pagine e abbracci, come a un amico ritrovato.
- Professore, - sbuffava il giovanotto. - Ma cosí badi che non la finiamo piú!
- Sí, sí, ecco, ecco, - riconosceva subito il Balicci. - Ma lo metta qua, questo: aspetti, mi faccia toccare dove l'ha messo. Bene, bene qua, per sapermi raccapezzare.
Erano per la maggior parte libri di viaggi, d'usi e costumi dei varii popoli, libri di scienze naturali e d'amena letteratura, libri di storia e di filosofia.
Quando alla fine il lavoro fu compiuto, parve al Balicci che il bujo gli s'allargasse intorno in tenebre meno torbide, quasi avesse tratto dal caos il suo mondo. E per un pezzo rimase come rimbozzolito a covarlo.
Con la fronte appoggiata sul dorso dei libri allineati sui palchetti degli scaffali, passava ora le giornate quasi aspettando che, per via di quel contatto, la materia stampata gli si travasasse dentro. Scene, episodii, brani di descrizioni gli si rappresentavano alla mente con minuta, spiccata evidenza; rivedeva, rivedeva proprio in quel suo mondo alcuni particolari che gli erano rimasti piú impressi, durante le sue riletture: quattro fanali rossi accesi ancora, alla punta dell'alba, in un porto di mare deserto, con una sola nave ormeggiata, la cui alberatura con tutte le sartie si stagliava scheletrica sullo squallore cinereo della prima luce; in capo a un erto viale, su lo sfondo di fiamma d'un crepuscolo autunnale, due grossi cavalli neri con le sacche del fieno alla testa.
Ma non poté reggere a lungo in quel silenzio angoscioso. Volle che il suo mondo riavesse voce, che si facesse risentire da lui e gli dicesse com'era veramente e non come lui in confuso se lo ricordava. Mise un altro avviso nei giornali, per un lettore o una lettrice; e gli capitò una certa signorinetta tutta fremente in una perpetua irrequietezza di perplessità. Aveva svolazzato per mezzo mondo, senza requie, e anche per il modo di parlare dava l'immagine d'una calandrella smarrita, che spiccasse di qua, di là il volo, indecisa, e s'arrestasse d'un subito, con furioso sbàttito d'ali, e saltellasse, rigirandosi per ogni verso.
Irruppe nello studio, gridando il suo nome:
- Tilde Pagliocchini. Lei? Ah già... me lo... sicuro, Balicci, c'era scritto sul giornale... anche su la porta... Oh Dio, per carità, no! guardi, professore, non faccia cosí con gli occhi. Mi spavento. Niente, niente, scusi, me ne vado.
Questa fu la prima entrata. Non se n'andò. La vecchia domestica, con le lagrime agli occhi, le dimostrò che quello era per lei un posticino proprio per la quale.
- Niente pericoli?
Ma che pericoli! Mai, che è mai? Solo, un po' strano, per via di quei libri. Ah, per quei libracci maledetti, anche lei, povera vecchia, eccola là, non sapeva piú se fosse donna o strofinaccio.
- Purché lei glieli legga bene.
La signorina Tilde Pagliocchini la guardò, e appuntandosi l'indice d'una mano sul petto:
- Io?
Tirò fuori una voce, che neanche in paradiso.
Ma quando ne diede il primo saggio al Balicci con certe inflessioni e certe modulazioni, e volate e smorzamenti e arresti e scivoli, accompagnati da una mimica tanto impetuosa quanto superflua, il pover'uomo si prese la testa tra le mani e si restrinse e si contorse come per schermirsi da tanti cani che volessero addentarlo.
- No! Cosí no! Cosí no! per carità! - si mise a gridare.
E la signorina Pagliocchini, con l'aria piú ingenua del mondo:
- Non leggo bene?
- Ma no! Per carità, a bassa voce! Piú bassa che può! quasi senza voce! Capirà, io leggevo con gli occhi soltanto, signorina!
- Malissimo, professore! Leggere a voce alta fa bene. Meglio poi non leggere affatto! Ma scusi, che se ne fa? Senta (picchiava con le nocche delle dita sul libro). Non suona! Sordo. Ponga il caso, professore, che io ora le dia un bacio.
Il Balicci s'interiva pallido:
- Le proibisco!
- Ma no scusi! Teme che glielo dia davvero? Non glielo do! Dicevo per farle avvertir subito la differenza. Ecco, mi provo a leggere quasi senza voce. Badi però che, leggendo cosí io fischio l'esse, professore!
Alla nuova prova, il Balicci si contorse peggio di prima. Ma comprese che, su per giú, sarebbe stato lo stesso con qualunque altra lettrice, con qualunque altro lettore. Ogni voce, che non fosse la sua, gli avrebbe fatto parere un altro il suo mondo.
- Signorina, guardi, mi faccia il favore, provi con gli occhi soltanto, senza voce.
La signorina Tilde Pagliocchini si voltò a guardarlo, con tanto d'occhi.
- Come dice? Senza voce? E allora, come? per me?
- Sí, ecco, per conto suo.
- Ma grazie tante! - scattò, balzando in piedi, la signorina. - Lei si burla di me? Che vuole che me ne faccia io, dei suoi libri, se lei non deve sentire?
- Ecco, le spiego, - rispose il Balicci, quieto, con un amarissimo sorriso. ¾ Provo piacere che qualcuno legga qua, in vece mia. Lei forse non riesce a intenderlo, questo piacere. Ma gliel'ho già detto: questo è il mio mondo; mi conforta il sapere che non è deserto, che qualcuno ci vive dentro, ecco. Io le sentirò voltare le pagine, ascolterò il suo silenzio intento, le domanderò di tanto in tanto che cosa legge, e lei mi dirà... oh, basterà un cenno... e io la seguirò con la memoria. La sua voce, signorina, mi guasta tutto!
- Ma io la prego di credere, professore, che la mia voce è bellissima! - protestò, sulle furie, la signorina.
- Lo credo, lo so - disse subito il Balicci. - Non voglio farle offesa. Ma mi colora tutto diversamente, capisce? E io ho bisogno che nulla mi sia alterato; che ogni cosa mi rimanga tal quale. Legga, legga. Le dirò io che cosa deve leggere. Ci sta?
- Ebbene, ci sto, sí. Dia qua!
In punta di piedi, appena il Balicci le assegnava il libro da leggere, la signorina Tilde Pagliocchini volava via dallo studio e se n'andava a conversare di là con la vecchia domestica. Il Balicci intanto viveva nel libro che le aveva assegnato e godeva del godimento che si figurava ella dovesse prenderne. E di tratto in tratto le domandava: - Bello, eh? - oppure: - Ha voltato? - Non sentendola nemmeno fiatare, s'immaginava che fosse sprofondata nella lettura e che non gli rispondesse per non distrarsene.
- Sí, legga, legga... - la esortava allora, piano, quasi con voluttà.
Talvolta, rientrando nello studio, la signorina Pagliocchini trovava il Balicci coi gomiti su i bracciuoli della poltrona e la faccia nascosta tra le mani.
- Professore, a che pensa?
- Vedo... - le rispondeva lui, con una voce che pareva arrivasse da lontano lontano. Poi, riscotendosi con un sospiro: - Eppure ricordo che erano di pepe!
- Che cosa, di pepe, professore?
- Certi alberi, certi alberi in un viale... Là, veda, nella terza scansia, al secondo palchetto, forse il terz'ultimo libro.
- Lei vorrebbe che io le cercassi, ora, questi alberi di pepe? - gli domandava la signorina, spaventata e sbuffante.
- Se volesse farmi questo piacere.
Cercando, la signorina maltrattava le pagine, s'irritava alle raccomandazioni di far piano. Cominciava a essere stufa, ecco. Era abituata a volare, lei, a correre, a correre, in treno, in automobile, in ferrovia, in bicicletta, su i piroscafi. Correre, vivere! Già si sentiva soffocare in quel mondo di carta. E un giorno che il Balicci le assegnò da leggere certi ricordi di Norvegia, non seppe piú tenersi. A una domanda di lui, se le piacesse il tratto che descriveva la cattedrale di Trondhjem, accanto alla quale, tra gli alberi, giace il cimitero, a cui ogni sabato sera i parenti superstiti recano le loro offerte di fiori freschi:
- Ma che! ma che! ma che! - proruppe su tutte le furie. - Io ci sono stata, sa? E le so dire che non è com'è detto qua!
Il Balicci si levò in piedi, tutto vibrante d'ira e convulso:
- Io le proibisco di dire che non è com'è detto là! - le gridò, levando le braccia. - M'importa un corno che lei c'è stata! È com'è detto là, e basta! Dev'essere cosí, e basta! Lei mi vuole rovinare! Se ne vada! Se ne vada! Non può piú stare qua! Mi lasci solo! Se ne vada!

...continua


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