Scialle nero

- Questo, questo cerco! questo voglio! - esclamò allora don Mattia, battendo un pugno sulla scrivania. - Qua, ingegnere: scrivete, scrivete! Né io né lui! Lo brucio... Scrivete. Non vi curate di quello che dico.
Lo Scelzi sedette innanzi alla scrivania e si mise a scrivere la proposta, esponendo prima, man mano, i patti vantaggiosi, tante volte già respinti sdegnosamente dallo Scala, che ora, invece, cupo, accigliato, annuiva col capo, a ognuno.
Stesa finalmente la proposta, l'ingegnere Scelzi non seppe resistere al desiderio di conoscere il perché di quella risoluzione improvvisa, inattesa.
- Mal'annata?
- Ma che mal'annata! Quella che verrà, - gli rispose lo Scala - quando avrete aperto la zolfara!
Sospettò allora lo Scelzi che don Mattia Scala avesse ricevuto tristi notizie del figliuolo scomparso: sapeva che, alcuni mesi addietro, egli aveva rivolto una supplica a Roma perché, per mezzo degli agenti consolari, fossero fatte ricerche dovunque. Ma non volle toccar quel tasto doloroso.
Lo Scala, prima d'andarsene, raccomandò di nuovo allo Scelzi di sbrigar la faccenda con la massima sollecitudine.
- A tamburo battente, e legatemi bene!
Ma dovettero passar due giorni per la deliberazione del Consiglio della Società delle zolfare, per la scrittura dell'atto presso il notajo, per la registrazione dell'atto stesso: due giorni tremendi per don Mattia Scala. Non mangiò, non dormì, fu come in un continuo delirio, andando di qua e di là dietro allo Scelzi, a cui ripeteva di continuo:
- Legatemi bene! Legatemi bene!
- Non dubiti, - gli rispondeva sorridendo l'ingegnere. - Adesso non ci scappa più!
Firmato alla fine e registrato il contratto di cessione, don Mattia Scala uscì come un pazzo dallo studio notarile; corse al fondaco, all'uscita del paese, dove, nel venire, tre giorni addietro, aveva lasciato la giumenta; cavalcò e via.
Il sole era al tramonto. Per lo stradone polveroso don Mattia s'imbatté in una lunga fila di carri carichi di zolfo, i quali dalle lontane zolfare della vallata, di là dalla collina che ancora non si scorgeva, si recavano, lenti e pesanti, alla stazione ferroviaria sotto il paese.
Dall'alto della giumenta, lo Scala lanciò uno sguardo d'odio a tutto quello zolfo che cigolava e scricchiolava continuamente a gli urti, ai sobbalzi dei carri senza molle.
Lo stradone era fiancheggiato da due interminabili siepi di fichidindia, le cui pale, per il continuo transito di quei carri, eran tutte impolverate di zolfo.
Alla loro vista, la nausea di don Mattia si accrebbe. Non si vedeva che zolfo, da per tutto, in quel paese! Lo zolfo era anche nell'aria che si respirava, e tagliava il respiro, e bruciava gli occhi.
Finalmente, a una svolta dello stradone, apparve la collina tutta verde. Il sole la investiva con gli ultimi raggi.
Lo Scala vi fissò gli occhi e strinse nel pugno le briglie fino a farsi male. Gli parve che il sole salutasse per l'ultima volta il verde della collina. Forse egli, dall'alto di quello stradone, non avrebbe mai più riveduto la collina, come ora la vedeva. Fra vent'anni, quelli che sarebbero venuti dopo di lui, da quel punto dello stradone, avrebbero veduto là un colle calvo, arsiccio, livido, sforacchiato dalle zolfare.
«E dove sarò io, allora?» pensò, provando un senso di vuoto, che subito lo richiamò al pensiero del figlio lontano, sperduto, randagio per il mondo, se pure era ancor vivo. Un impeto di commozione lo vinse, e gli occhi gli s'empirono di lagrime. Per lui, per lui egli aveva trovato la forza di rialzarsi dalla miseria in cui lo aveva gettato il Chiarenza, quel ladro infame che ora gli toglieva la campagna.
- No, no! - ruggì, tra i denti, al pensiero del Chiarenza. - Né io né lui!
E spronò la giumenta, come per volare là a distruggere d'un colpo la campagna che non poteva più esser sua.
Era già sera, quando pervenne ai piedi della collina. Dové girarla per un tratto, prima d'imboccar la via mulattiera. Ma era sorta la luna, e pareva che a mano a mano raggiornasse. I grilli, tutt'intorno, salutavano freneticamente quell'alba lunare.
Attraversando le campagne, lo Scala si sentì pungere da un acuto rimorso, pensando ai proprietarii di quelle terre, tutti suoi amici, i quali in quel momento non sospettavano certo il tradimento ch'egli aveva fatto loro.
Ah, tutte quelle campagne sarebbero scomparse tra breve: neppure un filo d'erba sarebbe più cresciuto lassù; e lui, lui sarebbe stato il devastatore della verde collina! Si riportò col pensiero al balcone della sua prossima cascina, rivide il limite della sua angusta terra, pensò che gli occhi suoi ora avrebbero dovuto arrestarsi là, senza più scavalcare quel muro di cinta e spaziar lo sguardo nella terra accanto: e si sentì come in prigione, quasi più senz'aria, senza più libertà in quel campicello suo, col suo nemico che sarebbe venuto ad abitare là. No! No!
- Distruzione! distruzione! Né io né lui! Brucino!
E guardò attorno gli alberi, con la gola stretta d'angoscia: quegli olivi centenarii, dal grigio poderoso tronco stravolto, immobili, come assorti in un sogno misterioso nel chiarore lunare. Immaginò come tutte quelle foglie, ora vive, si sarebbero aggricciate ai primi fiati agri della zolfara, aperta lì come una bocca d'inferno; poi sarebbero cadute; poi gli alberi nudi si sarebbero anneriti, poi sarebbero morti, attossicati dal fumo dei forni. L'accetta, lì, allora. Legna da ardere, tutti quegli alberi...
Una brezza lieve si levò, salendo la luna. E allora le foglie di tutti quegli alberi, come se avessero sentito la loro condanna di morte, si scossero quasi in un brivido lungo, che si ripercosse su la schiena di don Mattia Scala, curvo su la giumenta bianca.



IL TABERNACOLO

I.

Coricatosi accanto alla moglie, che già dormiva, voltata verso il lettuccio, su cui giacevano insieme i due figliuoli, Spatolino disse prima le consuete orazioni, s'intrecciò poi le mani dietro la nuca; strizzò gli occhi, e - senza badare a quello che faceva - si mise a fischiettare, com'era solito ogni qual volta un dubbio o un pensiero lo rodevano dentro.
- Fififì... fififì... fififì...
Non era propriamente un fischio, ma uno zufolio sordo, piuttosto; a fior di labbra, sempre con la medesima cadenza.
A un certo punto, la moglie si destò:
- Ah! ci siamo? Che t'è accaduto?
- Niente. Dormi. Buona notte.
Si tirò giù, voltò le spalle alla moglie e si raggricchiò anche lui da fianco, per dormire. Ma che dormire!
- Fififì... fififì... fififì...
La moglie allora gli allungò un braccio sulla schiena, a pugno chiuso.
- Ohé, la smetti? Bada che mi svegli i piccini!
- Hai ragione. Sta' zitta! M'addormento.
Si sforzò davvero di scacciare dalla mente quel pensiero tormentoso che diventava così, dentro di lui, come sempre, un grillo canterino. Ma, quando già credeva d'averlo scacciato:
- Fififì... fififì... fififì...
Questa volta non aspettò neppure che la moglie gli allungasse un altro pugno più forte del primo; saltò dal letto, esasperato.
- Che fai? dove vai? - gli domandò quella.
E lui:
- Mi rivesto, mannaggia! Non posso dormire. Mi metterò a sedere qua davanti la porta, su la strada. Aria! Aria!

...continua


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