Suo marito

Ecco: la mostruosità del fenomeno era questo silenzio terribile in mezzo al quale il dramma s'inalzava. Esso solo, lì, da sé e per conto suo viveva, sospendendo, anzi assorbendo la vita di tutti, strappando a lui le parole di bocca, e con le parole il fiato. E quella vita là, di cui egli ormai sentiva l'indipendenza prodigiosa, quella vita che si svolgeva ora calma e possente, ora rapida e tumultuosa in mezzo a tanto silenzio, gl'incuteva sgomento e quasi orrore, misti a un dispetto a mano a mano crescente; come se il dramma, godendo di se stesso, godendo di vivere in sé e per sé solo, sdegnasse di piacere altrui, impedisse che gli altri manifestassero il loro compiacimento, si assumesse insomma una parte troppo preponderante e troppo seria, trascurando e rimpicciolendo le cure innumerevoli ch'egli se n'era dato sinora, fino a farle apparire inutili e meschine, e compromettendo quegli interessi materiali a cui egli doveva attendere sopratutto. Se non scoppiavano applausi... se tutti restavano così sino alla fine, sospesi e intontiti... Ma com'era? che cos'era avvenuto? Tra poco il primo atto sarebbe terminato... Non un applauso... non un segno d'approvazione... niente!... Gli pareva d'impazzire... apriva e chiudeva le mani, affondandosi le unghie nelle palme, e si grattava la fronte ardente e pur bagnata di sudor freddo. Figgeva gli occhi nel viso alterato del Raceni tutto intento allo spettacolo, e gli pareva di leggervi il suo stesso sgomento... no, uno sgomento nuovo, quasi uno sbalordimento... forse quello stesso che teneva tutti gli spettatori... Per un momento temette non fosse una cosa atrocemente orrida, non mai finora perpetrata, quel dramma, e che tra poco, da un istante all'altro non scoppiasse una feroce insurrezione di tutti gli spettatori sdegnati, adontati. Ah era veramente una cosa terribile quel silenzio! Com'era? com'era? si soffriva? si godeva? Nessuno fiatava... E le grida dei comici sul palcoscenico, già all'ultima scena, rimbombavano. Ecco, ora calava la tela...
Parve a Giustino che egli, egli solo, lì dal fondale, con l'ansia sua, con la sua brama, con tutta l'anima in un tremendo sforzo supremo strappasse dalla sala, dopo un attimo eterno di voraginosa aspettazione, gli applausi, i primi applausi, secchi, stentati, come un crepitìo di sterpi, di stoppie bruciate, poi una vampata, un incendio: applausi pieni, caldi, lunghi, lunghi, strepitosi, assordanti... - e allora si sentì rilassar tutte le membra e venir meno, quasi cadendo, affogando in mezzo a quello scroscio frenetico, che durava, ecco, durava, durava ancora, incessante, crescente, senza fine...
Il Raceni lo aveva raccolto tra le braccia, sul petto, singhiozzante e lo sorreggeva, mentre quattro, cinque volte gli attori si presentavano alla ribalta, a quell'incendio là... Egli singhiozzava, rideva e singhiozzava e tremava tutto di gioja. Dalle braccia del Raceni cadde tra quelle della Carmi, e poi del Revelli, e poi del Crimi che gli stampò su le labbra, su la punta del naso e sulla guancia i colori della truccatura, perché in un impeto di commozione egli volle baciarlo a ogni costo, a ogni costo, non ostante che quegli, sapendo il guaio che ne sarebbe venuto, si schermisse. E col volto così impiastricciato, seguitò a cadere tra le braccia dei giornalisti e di tutti i conoscenti accorsi sul palcoscenico a congratularsi; non sapeva far altro; era così esausto, spossato, sfinito, che solo in quell'abbandono trovava sollievo; e ormai s'abbandonava a tutti, quasi meccanicamente; si sarebbe abbandonato anche tra le braccia dei pompieri di guardia, dei macchinisti, dei servi di scena, se finalmente a distoglierlo da quel gesto comico e compassionevole, a scuoterlo con una forte scrollatina di braccia non fosse sopravvenuta la Barmis, che lo guidò nel camerino della Carmi per fargli ripulir la faccia. Il Raceni era scappato a casa a prender notizie della moglie.
Nei corridoi, nei palchi era un gridìo, un'esagitazione, un subbuglio. Tutti gli spettatori, per tre quarti d'ora soggiogati dal fascino possente di quella creazione così nuova e straordinaria, così viva da capo a fondo d'una vita che non dava respiro, rapida, violenta, tutta lampeggiante di guizzi d'anima impreveduti, s'erano come liberati con quell'applauso frenetico, interminabile, dallo stupore che li aveva oppressi. Era in tutti adesso una gioja tumultuosa, la certezza assoluta che quella vita, la quale, nella sua novità d'atteggiamenti e d'espressioni, si dimostrava d'una saldezza così adamantina, non avrebbe potuto più frangersi per alcun urto di casi, poiché ogni arbitrio ormai, come nella stessa realtà, sarebbe apparso necessario, dominato e reso logico dalla fatalità dell'azione.
Consisteva appunto in questo il miracolo d'arte, a cui quella sera quasi con sgomento si assisteva. Pareva non ci fosse la premeditata concezione d'un autore, ma che l'azione nascesse lì per lì, di minuto in minuto, incerta, imprevedibile, dall'urto di selvagge passioni, nella libertà d'una vita fuori d'ogni legge e quasi fuori del tempo, nell'arbitrio assoluto di tante volontà che si sopraffacevano a vicenda, di tanti esseri abbandonati a sé stessi, che compivano la loro azione nella piena indipendenza della loro natura, cioè contro ogni fine che l'autore si fosse proposto.
Molti, tra i più accesi e pur non di meno afflitti dal dubbio che la loro impressione potesse non collegare col giudizio dei competenti, cercavano con gli occhi nelle poltrone, nei palchi i visi dei critici drammatici dei più diffusi giornali quotidiani, e si facevano indicare quelli venuti da fuori, e stavano a spiarli a lungo.
Segnatamente su un palco di prima fila si appuntavano gli occhi di costoro: nel palco di Zeta, terrore di tutti gli attori e autori che venivano ad affrontare il giudizio del pubblico romano.
Zeta discuteva animatamente con due altri critici, il Devicis venuto da Milano, il Còrica venuto da Napoli. Approvava? disapprovava? e che cosa? il dramma o l'interpretazione degli attori? Ecco, entrava nel palco un altro critico. Chi era? Ah, il Fongia di Torino... Come rideva! E fingeva di piangere e di abbandonarsi sul petto del Còrica e poi del Devicis. Perché? Zeta scattava in piedi, con un gesto di fierissimo sdegno, e gridava qualcosa, per cui gli altri tre prorompevano in una fragorosa risata. Nel palco accanto, una signora dal volto bruno, torbido, dagli occhi verdi profondamente cerchiati, dall'aria cupa, rigidamente altera, si levò e andò a sedere all'altro angolo del palco, mentre dal fondo un signore dai capelli grigi... - ah, il Gueli, il Gueli! Maurizio Gueli! - sporgeva il capo a guardare nel palco dei critici.
- Maestro; perdonate, - gli disse allora Zeta, - e fatemi perdonare dalla signora. Ma quello è un guajo, Maestro! Quello è la rovina della povera figliola! Se voi volete bene alla Roncella...
- Io? Per carità! - fece il Gueli; e si ritrasse col viso alterato, guardando negli occhi la sua amica.
Questa, con un fremito di riso tagliente su le labbra nere e restringendo un po' le pàlpebre quasi a smorzare il lampo degli occhi verdi, chinò più volte il capo e disse al giornalista:
- Eh, molto... molto bene...
- Signora, con ragione! - esclamò allora quello. - Genuina figliuola di Maurizio Gueli, la Roncella! Lo dico, l'ho detto e lo dirò. Questa è una cosa grande, signora mia! Una cosa grande! La Roncella è grande! Ma chi la salverà da suo marito?
Livia Frezzi tornò a sorridere come prima e disse:
- Non abbia paura... Non le mancherà l'aiuto... paterno, s'intende.
Poco dopo questa conversazione da un palco all'altro, mentre già si levava il sipario sul secondo atto, Maurizio Gueli e la Frezzi lasciavano il teatro come due che, non potendo più oltre frenare in sé l'impeto dell'avversa passione, corressero fuori per non dare un laido e scandaloso spettacolo di sé. Stavano per montare in vettura, quando da un'altra vettura arrivata di gran furia smontò, stravolto, Attilio Raceni.
- Ah, Maestro, che sventura!
- Che cos'è? - domandò con voce che voleva parer calma il Gueli.
- Muore... muore... muore... La Roncella, forse, a quest'ora... l'ho lasciata che... vengo a prendere il marito...
E senza neanche salutar la signora, il Raceni s'avventò dentro il teatro. Passando innanzi all'ingresso della platea udì un fragore altissimo d'applausi. In due salti fu sul palcoscenico. Qui, a prima giunta, si trovò come in mezzo a una mischia furibonda. Giustino Boggiolo ormai ringalluzzito, anzi quasi impazzito dalla gioja, tra i comici che lo tiravano per le falde della giacca, gridava e si divincolava per presentarsi lui, lui alla ribalta, invece della moglie, a ringraziare il pubblico che ancora non si stancava di chiamar fuori l'autrice, a scena aperta.

IV. Dopo il trionfo


1.

Alla stazione, una folla. I giornali avevano divulgato la notizia che Silvia Roncella, per miracolo scampata alla morte proprio nel momento supremo del suo trionfo, finalmente in grado di sopportar lo strapazzo d'un lungo viaggio, partiva quella mattina, ancora convalescente, per andare a recuperar le forze e la salute in Piemonte, nel paesello nativo del marito. E giornalisti e letterati e ammiratori e ammiratrici erano accorsi alla stazione per vederla, per salutarla, e s'affollavano innanzi alla porta della sala d'aspetto, poiché il medico che la assisteva e che l'avrebbe accompagnata fino a Torino, non permetteva che molti le facessero ressa attorno.
- Cargiore? Dov'è Cargiore?
- Uhm! Presso Torino, dicono.
- Ci farà freddo!
- Eh, altro... Mah!
Quelli intanto che erano ammessi a stringerle la mano, a congratularsi, non ostanti le proteste del medico, le preghiere del marito, non sapevano più staccarsene per dar passo agli altri; e, seppur si allontanavano un poco dal divano ov'ella stava seduta tra la suocera e la bàlia, rimanevano nella sala a spiare con occhi intenti ogni minimo atto, ogni sguardo, ogni sorriso di lei. Quelli di fuori picchiavan sui vetri, chiamavano, facevan cenni d'impazienza e d'irritazione; nessuno di quelli entrati se ne dava per inteso; anzi qualcuno pareva si compiacesse di mostrarsi sfrontato fino al punto di guardare con dispettoso sorriso canzonatorio quello spettacolo d'impazienza e d'irritazione.
L'esito del dramma La nuova colonia era stato veramente straordinario, un trionfo. La notizia della morte dell'autrice, diffusasi in un baleno nel teatro, durante la prima rappresentazione, alla fine del secondo atto, quando già tutto il pubblico era preso, affascinato dalla vasta e possente originalità del dramma, aveva suscitato una così nuova e solenne manifestazione di lutto e d'entusiasmo insieme, che ancora, dopo circa due mesi, ne durava un fremito di commozione in tutti coloro che avevano avuto la ventura di parteciparvi. Affermando quel trionfo della vita dell'opera d'arte, acclamando, gridando, deprecando, singhiozzando, era parso che il pubblico quella sera volesse vincere la morte: era rimasto lì, in teatro, alla fine dello spettacolo, a lungo, a lungo, frenetico, quasi in attesa che la morte lasciasse quella preda sacra alla gloria, la restituisse alla vita; e quando Laura Carmi, esultante, era irrotta al proscenio ad annunziare che l'autrice non era ancor morta, un delirio s'era levato come per una vittoria soprannaturale.
La mattina appresso tutti i giornali erano usciti in edizioni straordinarie per descrivere quella serata memorabile, e per tutta Italia, per tutti i paesi n'era volata subito la notizia, suscitando in ogni città il desiderio più impaziente di vedere al più presto rappresentato il dramma e d'avere intanto altre notizie, altre notizie dell'autrice e del suo stato, altre notizie del lavoro.
Bastava guardar Giustino Boggiolo per farsi un'idea dell'enormità dell'avvenimento, della febbre di curiosità per tutto divampata. Non la moglie, ma lui pareva uscito or ora dalle strette della morte.
Strappato, quella sera, dalle braccia dei comici che lo tenevano agguantato per il petto, per le spalle, per le falde della giacca, a impedire che si presentasse, o piuttosto, si precipitasse alla ribalta, lui invece della moglie, ebbro furente per i fragorosi applausi scoppiati a scena aperta, in principio del secondo atto, nel momento dell'approdo della nuova colonia, allorché alla vista delle donne i primi coloni smettono di combattere e lasciano solo Currao, era stato trascinato via, a casa, da Attilio Raceni che si squagliava in lagrime, convulso.
Come non era impazzito alla vista del tragico trambusto, lì in casa, innanzi a quei tre medici curvi addosso alla moglie sanguinosa abbandonata urlante, nel veder fare scempio e strazio del corpo esposto di lei?
Chiunque altro forse, balzato così da una violenta terribile emozione a un'altra opposta, non meno violenta e terribile, sarebbe impazzito. Lui no! Lui, invece, poco dopo entrato in casa, aveva dovuto e potuto trovare in sé la forza sovrumana di tener testa alla petulanza crudele dei giornalisti accorsi dal teatro appena la prima notizia della morte aveva cominciato a circolar tra i palchi e la platea. E mentre di là venivano gli urli, gli ùluli lunghi orrendi della moglie, aveva potuto, pur sentendosi da quegli urli, da quegli ùluli strappar le viscere e il cuore, rispondere a tutte le domande che quelli gli rivolgevano e dar notizie e ragguagli e finanche andare a scovar nei cassetti e distribuire ai redattori dei giornali più in vista il ritratto della moglie, perché fosse riprodotto nelle edizioni straordinarie del mattino.
Ora ella intanto - bene o male - s'era liberata del suo còmpito: quel che doveva fare, lo aveva fatto: eccolo là, tra i veli, quel caro gracile roseo cosino in braccio alla bàlia; e andava lontano, a riposarsi, a ristorarsi nella pace e nell'ozio. Mentre lui... Già prima di tutto, altro che quel cosino lì! Un gigante, un gigante aveva messo su, egli; un gigante che ora, subito, voleva darsi a camminare a grandi gambate per tutta l'Italia, per tutta l'Europa, anche per l'America, a mietere allori, a insaccar denari; e toccava a lui d'andargli appresso col sacco in mano, a lui già stremato di forze, così sfinito per il suo parto gigantesco.
Perché veramente per Giustino Boggiolo il gigante non era il dramma composto da sua moglie; il gigante era il trionfo, di cui egli solamente si riconosceva l'autore. Ma sì! se non ci fosse stato lui, se lui non avesse operato miracoli in tutti quei mesi di preparazione, ora difatti tanta gente sarebbe accorsa lì, alla stazione, a ossequiar la moglie, a felicitarla, ad augurarle il buon viaggio!
- Prego, prego... Mi facciano la grazia, siano buoni... Il medico, hanno sentito?... E poi, guardino, ci sono tant'altri di là... Sì, grazie, grazie... Prego, per carità... A turno, a turno, dice il medico... Grazie, prego, per carità... - si rivolgeva intanto a questo e a quello, con le mani avanti, cercando di tenerne quanti più poteva discosti dalla moglie, per regolare anche quel servizio nel modo più lodevole, così che la stampa poi, quella sera stessa, ne potesse parlare come d'un altro avvenimento. - Grazie, oh prego, per carità... Oh signora Marchesa, quanta degnazione... Sì, sì, vada, grazie... Venga, venga avanti, Zago, ecco, le faccio stringer la mano, e poi via, mi raccomando. Un po' di largo, prego, signori... Grazie, grazie... Oh signora Barmis, signora Barmis, mi dia ajuto, per carità... Guardi, Raceni, se viene il senatore Borghi... Largo, largo, per favore... Sissignore, parte senz'avere assistito neanche a una rappresentazione del suo dramma... Come dice? Ah sì... purtroppo, sì, neanche una volta, neanche alle prove... Eh, come si fa? deve partire, perché io... Grazie, Centanni!... Deve partire... Ciao, Mola, ciao! E mi raccomando, sai?... Deve partire, perché... Come dice? Sissignora, quella è la Carmi, la prima attrice... La Spera, sissignora!... Perché io... mi lasci stare, ah, mi lasci stare... Non me ne parli, non me ne parli, non me ne parli... A Napoli, a Bologna, a Firenze, a Milano, a Torino, a Venezia... non so come spartirmi... sette, sette compagnie in giro, sissignore...
Così, una parola a questo, una a quello, per lasciar tutti contenti; e occhiatine e sorrisi d'intelligenza ai giornalisti; e tutte quelle notizie distribuite così, quasi per incidenza; e or questo ora quel nome pronunziato forte a bella posta, perché i giornalisti ne prendessero nota.
Cèrea, con le labbra esangui, le nari dilatate, tutta occhi, i capelli cascanti, Silvia Roncella appariva piccola, minima, misera, quale centro di tutto quel movimento attorno a lei; più che stordita, smarrita.
Le si notavano sul volto certi sgrati movimenti, guizzi nervosi, contrazioni, che tradivano duri sforzi d'attenzione; come se ella, a tratti, non sapesse più credere a quel che vedeva e si domandasse che cosa infine dovesse fare, quel che si volesse da lei, ora, nel momento di partire, col bambino accanto, a cui forse tutto quell'assembramento, tutto quel rimescolìo potevano far male, come facevano male a lei.
«Perché? perché?», dicevano chiaramente quegli sforzi. «Ma dunque è vero, proprio vero, questo trionfo?»
E pareva avesse paura di crederlo vero, o fosse all'improvviso assaltata dal dubbio che ci fosse sotto sotto qualcosa di combinato, tutta una macchinazione ordita dal marito che si dava tanto da fare, una gonfiatura, ecco, per cui ella dovesse provare, più che sdegno, onta, come per una irriverenza indecente alla sua maternità, alle atroci sofferenze che essa le era costata, e uno strappo, una violenza alle sue modeste, raccolte abitudini; una violenza non solo importuna ma anche fuor di luogo, perché ella ora lì non stava a far nulla da richiamare tanto popolo: doveva partire, e basta, con la bàlia e il piccino e la suocera, povera cara vecchina tutta sbalordita, e lo zio Ippolito, che si prestava con gran sacrifizio ad accompagnarla fin lassù, invece del marito, e anche a tenerle compagnia in casa della suocera: ecco, così, un viaggetto in famiglia da far con le debite precauzioni, inferma com'era tuttavia.
Se il trionfo era vero, in quel momento, per lei, voleva dir fastidio, oppressione, incubo. Ma forse... sì, forse, in altro momento, appena ella avrebbe riacquistato le forze... se esso era vero... chi sa!
Qualcosa come un émpito immenso, tutto pungente di brividi, le si levava dal fondo dell'anima, turbando, sconvolgendo, strappando affetti e sentimenti. Era il dèmone, quell'ebbro dèmone che ella sentiva in sé, di cui aveva avuto sempre sgomento, a cui sempre s'era sforzata di contrastare ogni dominio su lei, per non farsi prendere e trascinar chi sa dove, lontano da quegli affetti, da quelle cure in cui si rifugiava e si sentiva sicura.
Ah, faceva proprio di tutto, di tutto, il marito per gittarla in preda ad esso! E non gli balenava in mente che se ella...?
No, no: ecco; contro il dèmone un altro più tremendo spettro le sorgeva dentro: quello de la morte: la aveva toccata, da poco, toccata; e sapeva com'era: gelo, bujo freddo e duro. Quell'urto! ah, quell'urto! Sotto la morbida mollezza delle carni, sotto il fervido fluire del sangue, quell'urto contro le ossa del suo scheletro, contro la sua cassa interna! Era la morte, quella; la morte che la urtava coi piedini del suo bimbo, che voleva vivere uccidendola. La sua morte e la vita del suo bambino le sorgevano dinanzi contro il dèmone malioso della gloria: una laidezza sanguinosa, brutale, vergognosa, e quel roseo d'alba lì tra i veli, quella purezza gracile e tenera, carne della sua carne, sangue del suo sangue.
Così combattuta, nella spossatezza della convalescenza, così sbalzata da un sentimento all'altro, Silvia Roncella or si volgeva al bambino, tra un saluto e l'altro; or abbassava la mano per dare una rapida stretta incoraggiante alle mani della vecchina che le sedeva accanto; ora rispondeva con uno sguardo freddo e quasi ostile agli augurii, alle congratulazioni d'un giornalista o d'un letterato, come a dir loro: «Non me n'importa poi tanto, sa? Io sono stata per morire!» - ora, invece, a qualche altra congratulazione, a qualche altro augurio, si rischiarava in viso, aveva come un lampo negli occhi e sorrideva.

...continua


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