Tutt'e tre

Don Camillo ebbe un brivido di tenerezza per tutte le fibre; si nascose il volto con le mani e, rompendo in singhiozzi, le abbandonò il capo sul grembo.

Oh, no, no: egli, nella sciagura che lo aveva atterrato, messo in guerra con tutti e con se stesso, non poteva più fare a meno di quella donna fervida e forte.
Risolvette d'allontanarsi per sempre da Roma. Si sarebbe ritirato nelle sue terre di Fabriano. Pregò Carla d'accettare per suo amore quel rifugio; si mise d'accordo con lei, e la fece partire avanti, con la bambina e quella vecchia zia.
Dopo una ventina di giorni, sistemato tutto, partì anche lui per la campagna, con la povera piccina senza madre.
Fin dal primo momento Carla ebbe per lei affetto e cure più che materni. Tanto che don Camillo stesso provò quasi rimorso per quell'altra bambina, ch'era pur sua, temendo non fosse trascurata troppo.
- No, che dici? Milluccia, per il momento, non ha tanto bisogno di me. Tinina sì, invece. Ma già, vedi, vedi come s'è fatta bella?
Era rifiorita veramente, in quei pochi giorni, la povera bambina, con la primavera che rideva e brillava dalla campagna a tutte le finestre della villa piena di sole. Ancora, messa accanto all'altra, nel lettuccio comune, pareva più piccina.
- Ma vedrai fra qualche mese. Sembreranno proprio come gemelle, e non sapremo più distinguere l'una dall'altra.
Don Camillo Righi sapeva dell'indignazione che aveva cagionato a Roma, nei parenti e negli amici, la notizia scandalosa ch'egli aveva dato ad allevar la figliuola alla propria amante. Ma voleva che venissero qua, tutti, a vedere quelle due piccine, l'una accanto all'altra, e l'amore e le cure di quella madre per esse.
- Imbecilli!



FILO D'ARIA

Sfavillio d'occhi, di capelli biondi, di braccini, di gambette nude, impeto di riso che, frenato in gola, scatta in gridi brevi, acuti - quella furietta di Tittì entrò, s'avventò al balcone della stanza per aprir la vetrata.
Arrivò appena a girar la maniglia: un ruglio aspro, roco, come di belva sorpresa nel giaccio, l'arrestò di botto, la fece voltare, atterrita, a guardar nella stanza.
Bujo.
Gli scuri del balcone erano rimasti accostati.
Abbagliata ancora dalla luce da cui veniva, non vide; sentì spaventosamente in quel bujo la presenza del nonno sul seggiolone: immane ingombro affardellato di guanciali, di scialli grigi a scacchi, di coperte aspre pelose; tanfo di vecchiaja tumida e sfatta, nell'inerzia della paralisi.
Ma non quella presenza la atterriva. La atterriva il fatto, che avesse potuto dimenticare per un momento che lì in quel bujo degli scuri sempre accostati, ci fosse il nonno e che ella avesse potuto trasgredire, senza punto pensarci, all'ordine severissimo dei genitori, da tanto tempo espresso e sempre osservato da tutti, di non entrare cioè in quella stanza se non dopo aver picchiato all'uscio e chiestane licenza (come si dice?): - Permetti nonnino? - ecco, così, e poi pian pianino, in punta di piedi, senza fare il minimo rumore.
Quel primo impeto di riso sull'entrare le smorì subito in un ansito, prossimo a ingrossarsi in singhiozzi.
Quatta quatta, allora, la bimba tremante e in punta di piedi, non supponendo che il vecchio abituato a quella penombra cupa, la vedesse; credendosi non veduta, s'avviò verso l'uscio. Stava per toccar la soglia, allorché il nonno la chiamò a sé con un «Qua!» imperioso e duro.
La bimba s'accostò, ancora in punta di piedi, sospesa, sbigottita, trattenendo il respiro. Cominciava adesso a discernere anche lei nella penombra. Intravide i due occhi aguzzi, cattivi, del nonno e subito abbassò i suoi.
In quegli occhi, entro le borse enfiate acquose delle palpebre, la cui rossedine scialba faceva pensare con ribrezzo al contatto viscido d'una tarantola, pareva si fosse raccolta, vigilante in un assiduo terrore e intensa d'astio muto e feroce, l'anima del vecchio cacciata da tutto il resto del corpo già invaso e reso immobile dalla morte.
Soltanto, ma proprio appena, egli poteva ancora tentare di muovere una mano, la sinistra, dopo essersela guardata a lungo, con quegli occhi, quasi a infonderle il movimento. Lo sforzo di volontà, arrivato al polso, riusciva a stento a sollevare un poco dalle coperte quella mano; ma durava un attimo; la mano ricadeva inerte.
Il vecchio s'ostinava di continuo in quell'esercizio di volontà, perché quel lieve moto momentaneo, ch'egli poteva ancor trarre dal corpo, era per lui la vita, tutta quanta la vita, in cui gli altri si movevano liberamente, a cui gli altri partecipavano interi, a cui ancora poteva partecipare anche lui, ma ecco: per quel tanto e non più.
- Perché... il balcone?... - barbugliò con la lingua imbrogliata, alla nipotina.
Questa non rispose. Seguitava a tremare. Ma in quel tremito il vecchio avvertì subito qualcosa di nuovo. Avvertì che non era quel solito tremito di paura, a stento represso dalla piccina, ogni qual volta il padre o la madre la costringevano ad accostarsi a lui. C'era la paura, ma c'era anche qualcos'altro, sotto, soffocato dalla paura per quel suo aspro, improvviso richiamo: qualcos'altro, per cui il tremito di tutta la bambina diveniva fremito. Un fremito strano.
- Che hai? - le domandò.
La piccina, osando appena alzar gli occhi, rispose:
- Nulla.
Ma anche nella voce, anche nell'alito della bimba, ora, il vecchio avvertì qualcosa d'insolito. E ripeté con più astio:
- Che hai?
Uno scoppio di singhiozzi. E subito dopo la piccina si buttò a terra, convulsa, gridando e dibattendosi tra quei singhiozzi, con una violenza e una furia, che tanto più oppressero e irritarono il vecchio, in quanto anch'esse gli parvero insolite.
Accorse nella stanza la nuora, gridando:
- Oh Dio, Tittì, ch'è stato? Ma come? qua? Che t'è preso? Su... su... ferma! Su, con mamma tua... Come sei entrata qui? Che dici? Cattivo? Chi? Ah... Nonno cattivo? Tu, cattiva... Nonno, nonno, che ti vuol tanto bene... Ma che è stato?
Il vecchio, a cui fu rivolta l'ultima domanda, guatò feroce la bocca rossa ridente della nuora, poi il bel ciuffo di capelli biondo-dorati, che la piccina le scompigliava su la fronte con una mano, dibattendosi ora in braccio a lei, e facendo impeto per costringerla a uscir subito da quella stanza.
- Tittì, ahi! i miei capelli... Dio, Dio... me li strappi tutti... uh... tutti i capelli di mamma, cattivona! Hai visto? Guarda... tutti i capelli di mamma tra le dita... i capelli di mamma tua... guarda, guarda...
E di tra le dita aperte della manina trasse uno e poi un altro e poi un altro filo d'oro, ripetendo:
- Guarda... guarda... guarda...
La bimbetta, subito impressionata, che davvero avesse strappati tutti i capelli di mamma, si voltò a guardarsi la manina con gli occhi pieni di lagrime. Non vedendo nulla, e udendo invece una risata larga, allegra, della mamma, diventò di nuovo furente, più furente, e la costrinse a scappar via dalla stanza.
Il vecchio ansimava forte. Una domanda gli gorgogliava dentro, inasprendogli l'astio di punto in punto.
- Ma che hanno? che hanno?
Anche negli occhi, anche nella voce, anche in quella risata della nuora, nel gesto con cui dai ditini della bimba aveva tratto i capelli strappati, prima uno e poi un altro e poi un altro, aveva avvertito alcunché d'insolito, di straordinario.
No, non erano, né la bimba né la nuora, come tutti gli altri giorni. Che avevano?
E l'astio gli crebbe maggiormente, allorché, chinando gli occhi sulla coperta stesa sulle gambe, vi avvistò uno di quei capelli della nuora, che, forse spinto nell'aria mossa dalla risata, era venuto lieve lieve a posarsi lì, su le sue gambe morte.
S'accanì a lungo allora a sospingere la mano su quelle gambe per accostarla a poco a poco, a piccoli sbalzi, a quel capello, che gli era odioso come uno scherno. E affannato in questo sforzo che, già protratto invano per una mezz'ora, lo aveva stremato, lo trovò il figliuolo, il quale ogni mattina, prima d'uscir di casa per i suoi affari, si recava in camera di lui a salutarlo.
- Buon giorno, babbo!
Il vecchio levò il capo. Uno sguardo opaco e torbido, di stupore pauroso, gli dilatava gli occhi. Anche il figlio?

...continua


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