Altai

Da una porta mi venne incontro una sagoma familiare. L’aurora iniziava a fare capolino sulle colline, quanto bastava per riconoscere Del Soto.
- Siete fuori di prigione, ma non ancora in salvo.
Raccolsi il fiato per parlare.
- Dove mi portate?
Sospirò.
- Non posso dirvelo.
- Vai all’inferno, - sibilai.
- È solo una precauzione, - mi tranquillizzò. - Andrete in un posto sicuro, dove i veneziani non potranno raggiungervi.
Una fitta alle costole mi costrinse a piegarmi con un lamento e lui mi aiutò a restare in piedi. Provai l’istinto di ritrarmi da quel contatto, ma scoprii di non averne la forza. Fece un cenno ai servitori, che mi presero e mi issarono sul carro.
- Perché non una barca? - mormorai.
- Venezia vi cercherà in tutti i porti dell’Adriatico. Ve ne andrete per via di terra. Addio, De Zante.
Diede l’ordine ai suoi uomini di mettersi in marcia, una frusta schioccò, le ruote cigolarono. Mi accasciai sul carro, sotto una pesante tenda cerata, e rimasi così, la gola chiusa e un buco al posto del cuore, una voragine che risucchiava tutto: il dolore al costato, i lividi, i pensieri, il mio passato, l’aiuto che mi aveva dato il Tuota, la nave per Durazzo, tutto. Anche il mio nome.



14.


La striscia variopinta delle case si ingrandì a ogni colpo di remo, fino a riempire gli occhi. La città era splendida come una sposa, distesa su alture verdi chiazzate di colori sgargianti, rosso, giallo, indaco, sotto un cielo che il vento di nordovest rendeva terso e blu profondo.
Mi volsi indietro a cercare con lo sguardo l’estuario del fiume che ci aveva spinti nel golfo. Interpellai uno degli uomini della scorta, un omone irsuto e armato fino ai denti, che con i suoi compari parlava un dialetto greco.
- Poia poli ine aftì? - chiesi, sperando che la domanda fosse comprensibile.
Non rispose. Nessuno mi aveva rivolto la parola per tutto il viaggio, benché avessi chiesto più volte dove mi stessero portando. L’esasperazione tornò a lottare con la pazienza. Avrei voluto insultarlo, dimenarmi, proferire oscenità in diverse lingue, ma non feci nulla di tutto questo.
Poi, all’improvviso, lo sentii pronunciare una sola parola.
- Thessaloniki.
Tornai a osservare la linea delle case. Avrei dovuto immaginarlo. La sorte mi portava dove aveva detto il Tuota.
Salonicco. La Gerusalemme dei Balcani. Era così che chiamavano la vecchia città di San Demetrio, capitale dei sefarditi nell’impero ottomano. Una delle roccaforti di Nasi, dove la sua lunga mano muoveva innumerevoli fili.
Ci arrivavamo dopo settimane di viaggio. La prima era stata infernale. Lasciata Ragusa, eravamo penetrati nell’entroterra su una strada malandata. I cigolii del carro parevano i lamenti di una gatta in calore, e gli scossoni non avevano aiutato le mie costole a rimettersi in sesto. Attraverso monti e strette valli spazzate dal vento avevamo raggiunto Pogorizza, dove un medico mi aveva visitato e fasciato stretto il torace. Avevo la febbre, ma non c’era tempo di fermarsi. Il carro aveva ripreso la via fino a Skopje, e gli uomini di Del Soto mi avevano consegnato a una nuova scorta. Il viaggio era proseguito sull’acqua, a bordo di una lunga chiatta, con grande sollievo delle mie ossa. Ora mi rendevo conto che dovevamo aver navigato il fiume Axios attraverso la Macedonia, fino all’estuario che sbocca nell’Egeo. L’acqua intorno a noi era quella del Golfo Termaico.

Dopo l’approdo in un anfratto del porto, fui spinto dentro un carro, verso il luogo di soggiorno deciso per me. Le strade erano affollate, gli odori forti, gli urti e i sobbalzi frastornanti. Per mia fortuna ero digiuno da molte ore, altrimenti avrei dato di stomaco.
- Mi ozo en tu kulo! - udii gridare qualcuno. Il ricordo del medesimo scongiuro sulle labbra dell’Abecassi mi colpì come un ceffone.
Il viaggio mi aveva spossato, la nausea mi assestava i colpi finali. Ero a Salonicco per la prima volta nella mia vita, e vi giungevo con l’anima piegata.

Nella città bassa si viveva stretti, incombenti l’uno sull’altro. Il mondo maleodorava, tanfo di urina tenuta in tinozze per conciare pelli, tanfo di pelli conciate, tanfo di rifiuti e marciume. Su quel marcio volavano profumi di cucina e di lussuria.
Le frasi scambiate da una casa all’altra invadevano la stanza dov’ero trattenuto. Il giudesmo degli ebrei spagnoli, la lingua di mia madre, mi inchiodava al passato. Un padrone di casa dai modi gentili ma fermi mi inchiodava al presente, un presente sempre uguale, giorno dopo giorno.
Diceva di chiamarsi Efrem Del Burgo. Era un uomo basso e tondo con un muso da molosso, figlio di giudei riparati a Salonicco cinquant’anni prima. Suo padre era arrivato dalle Puglie, sua madre da Granada.
Efrem era proprietario di una conceria e della casa dove stavo confinato, o almeno così mi disse. Parlava un giudesmo melodioso, curvaceo come il suo corpo, mentre il suo italiano era asciutto, composto di frasi secche e brevi. Ogni mattina bussava ed entrava nella mia stanza, per chiedermi come avessi trascorso la notte e scambiare convenevoli.
Le domande su Nasi o sulla mia reclusione rimbalzavano su un muro di cortesia e sorrisi. Sapevo come funzionava il mondo degli spioni, non era lui la persona che mi avrebbe interrogato. Gli ingredienti per preparare un interrogatorio erano sempre gli stessi: attesa e incertezza. Mi chiesi quanto tempo avrei dovuto aspettare.
Efrem mi portava il cibo di persona, desinare e cena: fagioli con carne, polpettine di pollo, dolci di frutta secca, ma niente vino né rakia. Forse volevano tenermi pensieroso e all’erta. In quella condizione di perenne lucidità non potevo che guardare il mondo attraverso la grata della finestra e ascoltare le sue voci.
I primi giorni passarono senza che vedessi nessuno oltre al mio «carceriere». Mi rivolgevo a lui in italiano, e talvolta nel mio giudesmo arrugginito.
- Kuanto tiempo tengo ke estar aki? Ke estamos asperando?
Efrem rispondeva con semplici sorrisi e alzate di spalle.
Un giorno fece entrare nella mia stanza un domestico con una tinozza, recipienti di acqua calda e un vaso pieno di un’essenza profumata. Efrem si toccò il naso e fece una smorfia.
- Puéde ser el kostumbre en Venesia, pero akì mos lavamos.
Quando fui lavato e rivestito annuì, ma non sembrava ancora soddisfatto.
- Pareses un papas, - disse, paragonandomi a un prete greco. Intendeva che era tempo di radermi e tagliarmi i capelli. Il barbiere che mi mandò il giorno stesso fu la terza persona che incontrai fra quelle mura, ma aveva la consegna di non parlarmi - compito immane, per uno del suo mestiere.
Come quasi tutti i giudei di Salonicco, l’uomo portava un turbante giallo. Al pari di Efrem, del domestico e dei passanti che occhieggiavo dalla finestra, mi parve di un’estrema, sorvegliata eleganza.
Un autentico sbalordimento mi coglieva quando vedevo, giù nella via, passeggiare donne cariche di ornamenti e gioielli, altere nei loro abiti dalle tinte accese. Quella cura nel vestire mi sembrava in contrasto con il tanfo intollerabile e il lordume del quartiere. Non avevo mai visto donne ebree tanto agghindate, all’infuori di mia madre. Per ore, da bambino, la guardavo farsi bella, pittarsi, decorarsi collo e orecchie con ori e pietre ereditati da sua madre e sua nonna.
Nella mia cattività, che si prolungava da una settimana, desideravo quelle donne come mai avevo desiderato qualcosa. Pure quelle più anziane. A Ragusa mi ero tenuto alla larga dalle femmine, forse perché a tradirmi era stata la mia amante, o perché incombeva ovunque il ricordo di mia madre. Avevo cercato liquore e vino, e anche ora mi mancavano, certo, ma mai quanto l’amplesso con una donna.
A Venezia, una volta, avevo visto una scimmia in gabbia portata dall’Africa. Si agitava e strillava, il membro turgido ed eretto come uno stilo.
Così mi sentivo, da solo, in quella stanza. Dalla città alta, cinque volte al giorno, scendeva il canto del muezzin. Il fraseggio allungato e vibrante suonava come un inno al mio desiderio.
Una mattina presto orecchiai, fuori nel corridoio, una voce femminile. Doveva essere una serva, passò rapida canticchiando e causandomi un tuffo al cuore. Quando entrò Efrem lo affrontai. Chiesi del vino e una donna.

...continua


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