Altai

Gli occhi glauchi del vecchio vibrarono d’indignazione, un filo di bava gli colava all’angolo della bocca.
- Bestemmia! Voi vi credete il Messia!
Nasi scosse il capo.
- No -. Si chinò fino quasi a sfiorare il naso del rabbino con il proprio. - Ma sarei un buon re. È questo che vi spaventa.
Rabbi Eli emise una sorta di ringhio, come se volesse azzannare l’avversario. Poi si girò di scatto e claudicò fuori dal palazzo, senza smettere di masticare maledizioni.
In quel momento, donna Reyna sbucò alle mie spalle. Doveva essere lì già da un po’, a godersi il finale della scena. Avanzò al centro della sala e passò accanto a Nasi con una mezza riverenza.
- Maestà, - disse in tono lezioso.
Il futuro re di Cipro non parve nemmeno accorgersene.

31.


Iniziai a tenere d’occhio Dana e a seguirla con discrezione, ogni volta che si allontanava da Palazzo Belvedere.
Al mercato del lunedì, nascosto dietro una pila di albicocche secche, la vidi comprare un sacco di granaglie per il suo cardellino.
La sera del martedì entrò in un edificio malandato di Kuruçesme, dove si trattenne per un paio d’ore. Scoprii che apparteneva a una donna greca, anche lei liberata dallo harem di Selim e ora moglie del suo capo stalliere.
Mercoledì pomeriggio vendette a un mercante di corredi una pila di coperte ricamate da lei e col ricavato acquistò due pennelli e una scatola di colori a olio.
Quella sera mi dissi che forse dovevo cambiare strategia.
Avrei preferito parlarle con calma, convincerla a rivelarmi quel che sapeva, ma il ricordo della sua reticenza mi offendeva nell’orgoglio. Se non aveva ceduto subito, dopo la parata, alle mie prime richieste, significava che in fondo era più devota a donna Reyna che a me.
Giovedì mattina, quando la incrociai nel salone, le dissi di non passare dalla mia camera quella notte. Non aggiunsi altro e andai a cercare don Yossef.
In quei giorni avevo pensato spesso a quanto il mio mentore fosse solo. Reyna, il Gran Visir, i rabbini ashkenazim e perfino il suo più vecchio amico. Nessuno di loro credeva in lui. Eppure migliaia di ebrei gli dovevano la vita. Eppure io ero lì, a dimostrare che era possibile cambiare tutto. Bastava volerlo e con l’aiuto del Signore le cose potevano essere capovolte, il caos cancellato, l’equilibrio ripristinato. Tikkun olam. Così lo aveva definito Nasi. Aggiustare il mondo, sanare la ferita che il nostro popolo si portava dietro da millecinquecento anni, così come aveva rimarginato la mia piaga, nascosta per metà della vita.
Nasi aveva bisogno di alleati e intendevo dirglielo. L’amicizia del Sultano e i denari profusi per l’impresa di Cipro erano solide garanzie, ma quell’investimento lo esponeva a grossi rischi, ed era per molti fonte di sospetto. Era stata Dana a ricordarmi la storia di Giuseppe invidiato dai fratelli a causa dei suoi sogni, e da essi venduto ai mercanti.
Quando lo trovai, non mi diede il tempo di parlare, e ancora una volta fu lui a precedermi, a leggermi come si legge un libro, magari uno di quei rari esemplari che attiravano Ralph Fitch nella biblioteca di Palazzo Belvedere.
Mi trascinò fuori, con appena un paio di servitori di scorta, a perderci nel chiasso e nell’umanità operosa del quartiere cristiano. Parlò a lungo mentre camminavamo e fu come se avessi trasferito le incertezze alla sua mente, senza aprire bocca.
- Il Gran Visir è molto forte, anche se al Divano l’abbiamo messo in minoranza. E soprattutto, questo non dimenticarlo mai, Mehmet Sokollu è molto astuto. Bloccando Ashkenazi gli abbiamo strappato un braccio, ma lui è come una piovra, ne ha altri sette. Quanto ai rabbini ashkenazim, non preoccuparti troppo. Ci osteggiano da sempre. Spargono diffidenza fra la nostra gente, dicono che Cipro è un capriccio personale, una ricompensa per i servigi offerti al Sultano. Capisci? Usano le divisioni tra gli ebrei d’Oriente e d’Occidente come una leva per minare il nostro progetto. Dicono che nascerà un regno sefardita in Oriente, quando sanno benissimo che io intendo offrire una dimora a tutti, senza distinzioni. Un rifugio sicuro per gli erranti della Terra: giudei, moriscos, eretici, schiavi. L’ho già fatto dopo l’incendio, hai visto la gente in casa mia. Non erano solo sefarditi, e non erano nemmeno tutti ebrei.
Rallentai il passo, travolto dal peso di quelle parole.
- La povera gente sta con te, ma come superiamo la sfiducia delle famiglie più ricche?
Nasi si accorse di avermi distanziato e si fermò.
- È per questo che siamo qui.
Attorno a noi si incrociavano parlate veneziane e ottomane, eravamo nel cuore di Galata.
- Dove stiamo andando? - domandai.
Yossef mi indicò una casa a metà della via.
- A procurarci un nuovo alleato. Uno che non ha più niente da perdere e tutto da guadagnare dal mettersi con noi. Vieni, ci sta aspettando.
Ancora oggi non riesco a immaginare la mia faccia mentre entravamo in quella casa e venivamo fatti accomodare in un’ampia stanza, su comodi cuscini, al cospetto dell’uomo che avevo pedinato per giorni.

Salomone Ashkenazi ci osservava attento, sorseggiando il caffè che sua moglie Bula aveva versato nelle tazze. Gli occhi piccoli e astuti del medico veneziano saettavano fra Nasi e me. Era chiaro che la lettera con cui Nasi si era fatto annunciare non svelava il motivo della visita, ma Ashkenazi non era uno stupido e non poteva non avere un presentimento. Forse per questo, quando il suo principale avversario gli offrì di diventare tesoriere del futuro regno giudaico cipriota, non batté ciglio. In quel momento era un uomo finito: Sokollu gli aveva evitato la morte, ma aveva dovuto interdirgli il palazzo e ogni frequentazione pubblica. Viveva come un recluso. Nasi gli stava dando l’opportunità di risorgere dall’abisso in cui lui stesso lo aveva sprofondato. Il suo genio era una luce in piena faccia. Recuperare il medico alla sua causa e affidargli un incarico nel futuro governo sarebbe stato un segnale fortissimo per gli ebrei ashkenazim, l’annuncio che il nuovo regno di Sion era anche loro.
Il padrone di casa richiamò la moglie e le disse di approntare il pranzo, perché gli ospiti si sarebbero trattenuti. Poi tornò a guardare noi. Avremmo parlato d’affari a stomaco pieno.

32.


Cammino in un deserto di rocce, sotto un cielo dorato e splendente. Ho sete, la bocca secca, l’abito appiccicato alla schiena dal sudore. Dirigo passi affaticati verso una montagna solitaria e nera, stagliata sull’orizzonte. Il profilo del crinale ricorda le torri di un castello. Attorno alle guglie appuntite, volano nestori e falchi.
Giunto ai piedi del massiccio, scruto le rupi di ossidiana in cerca di appigli. Mi arrampico per conquistare la vetta, ma il minerale taglia le dita e penso che presto rovinerò giù, quando sopra la testa vedo sporgere un balcone di pietra. L’ultimo sforzo per issarmi e mi trovo davanti una porta d’avorio, sul fianco della montagna, protetta da due guerrieri. Impugnano le fruste metalliche che ho visto usare da Mukhtar, solo che al posto dei flagelli ci sono serpenti dalle squame di bronzo. Vorrei fuggire, ma la porta si apre e i due guerrieri lasciano passare Dana, che mi viene incontro, mi prende per mano e mi conduce all’interno.
- T’estan asperando, - le sento dire nella lingua di mia madre.
Attraversiamo stanze identiche, una dopo l’altra. Ricordano tutte la sala del Divano, cambia solo il colore della tappezzeria. In quella rossa, il gran visir Sokollu presiede una riunione di dignitari e pasha, ma nessuno parla, nessuno si muove, sembrano impagliati. Nella gialla, combattono a colpi d’ascia due giannizzeri, mezzi nudi, i corpi squarciati da tagli e ferite. Nella turchese è custodito un gigantesco cannone, fuso nelle fattezze di un membro virile. Nella verde, solchiamo un mare di maomettani in preghiera, e solo quando ne siamo circondati mi accorgo che sono tutte donne, prostrate per adorare il Sultano.
- Non sono una concubina, - mi dice Dana con voce meccanica, poi ripete che mi stanno aspettando e mi tira per il braccio verso l’ultima stanza, che è di un bianco abbacinante. Sul divano, lungo le pareti, siedono donne intente a ravvolgere enormi matasse di filo e ad allattare figli. Guardo i piccoli che succhiano il seno e mi paiono uomini adulti, tutti uguali, con barba e turbante, come nelle miniature turchesche. Altre donne, al centro della sala, formano un cerchio danzante tenendosi per mano. Mi sembra di riconoscerne alcune, ma in realtà si somigliano tutte: mia madre, Arianna, Reyna. Il circolo si apre per accogliermi e vorrei ballare con loro, i passi sembrano semplici, solo che non sento la musica, non riesco a tenere il ritmo e mi sfugge l’intenzione dei movimenti, non capisco se siano festosi o tristi, macabri o grotteschi. Così rimango immobile, sento le gambe dure, bloccate, finché Dana non mi si inginocchia davanti e me le muove con le mani, per farmi capire come devo fare. Alle spalle, un’altra donna mi afferra le braccia e mi suggerisce le giuste movenze, con il corpo schiacciato contro il mio. Devo fare uno sforzo per non eccitarmi, per concentrarmi solo sul ballo, capire bene i passi, orecchiare la musica. Alla fine, dopo molti tentativi, riesco a seguire la danza, prima fermo sul posto, poi avanti e indietro, quindi in un girotondo sempre più veloce, che trasforma la stanza in un vortice e tutto inghiotte, mi trascina, mentre Dana si avvicina a una grata d’oro, in alto sul muro, infila una mano tra le maglie del metallo e consegna qualcosa a un’ombra dai lunghi capelli. Un’ombra di donna.

Mi svegliai riposato, sorpreso di ricordare i dettagli del sogno. Di solito, visioni oniriche e vita reale occupano stanze separate nella mia testa e le prime svaniscono non appena apro la porta della seconda.
Mi lavai e scelsi i vestiti con cura: quello non era un sabato come gli altri.
Nell’atrio di palazzo Belvedere si preparava una vera processione. Servitori, parenti e accoliti abbandonavano le loro stanze, scendevano scale e attraversavano corridoi, per confluire tutti di fronte al grande portone.
Nasi arrivò per ultimo, vestito di cremisi e cobalto, e si mise alla testa della sfilata.
Quando il vecchio guardiano aprì i battenti, almeno cinquanta persone erano pronte a scendere in strada, disposte su due schiere, gli uomini davanti e le donne dietro. Lungo la via, si accalcava una folla molto più vasta e disordinata, desiderosa di unirsi al corteo.

...continua


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