Altai

Il viaggio mi aveva spossato, la nausea mi assestava i colpi finali. Ero a Salonicco per la prima volta nella mia vita, e vi giungevo con l’anima piegata.

Nella città bassa si viveva stretti, incombenti l’uno sull’altro. Il mondo maleodorava, tanfo di urina tenuta in tinozze per conciare pelli, tanfo di pelli conciate, tanfo di rifiuti e marciume. Su quel marcio volavano profumi di cucina e di lussuria.
Le frasi scambiate da una casa all’altra invadevano la stanza dov’ero trattenuto. Il giudesmo degli ebrei spagnoli, la lingua di mia madre, mi inchiodava al passato. Un padrone di casa dai modi gentili ma fermi mi inchiodava al presente, un presente sempre uguale, giorno dopo giorno.
Diceva di chiamarsi Efrem Del Burgo. Era un uomo basso e tondo con un muso da molosso, figlio di giudei riparati a Salonicco cinquant’anni prima. Suo padre era arrivato dalle Puglie, sua madre da Granada.
Efrem era proprietario di una conceria e della casa dove stavo confinato, o almeno così mi disse. Parlava un giudesmo melodioso, curvaceo come il suo corpo, mentre il suo italiano era asciutto, composto di frasi secche e brevi. Ogni mattina bussava ed entrava nella mia stanza, per chiedermi come avessi trascorso la notte e scambiare convenevoli.
Le domande su Nasi o sulla mia reclusione rimbalzavano su un muro di cortesia e sorrisi. Sapevo come funzionava il mondo degli spioni, non era lui la persona che mi avrebbe interrogato. Gli ingredienti per preparare un interrogatorio erano sempre gli stessi: attesa e incertezza. Mi chiesi quanto tempo avrei dovuto aspettare.
Efrem mi portava il cibo di persona, desinare e cena: fagioli con carne, polpettine di pollo, dolci di frutta secca, ma niente vino né rakia. Forse volevano tenermi pensieroso e all’erta. In quella condizione di perenne lucidità non potevo che guardare il mondo attraverso la grata della finestra e ascoltare le sue voci.
I primi giorni passarono senza che vedessi nessuno oltre al mio «carceriere». Mi rivolgevo a lui in italiano, e talvolta nel mio giudesmo arrugginito.
- Kuanto tiempo tengo ke estar aki? Ke estamos asperando?
Efrem rispondeva con semplici sorrisi e alzate di spalle.
Un giorno fece entrare nella mia stanza un domestico con una tinozza, recipienti di acqua calda e un vaso pieno di un’essenza profumata. Efrem si toccò il naso e fece una smorfia.
- Puéde ser el kostumbre en Venesia, pero akì mos lavamos.
Quando fui lavato e rivestito annuì, ma non sembrava ancora soddisfatto.
- Pareses un papas, - disse, paragonandomi a un prete greco. Intendeva che era tempo di radermi e tagliarmi i capelli. Il barbiere che mi mandò il giorno stesso fu la terza persona che incontrai fra quelle mura, ma aveva la consegna di non parlarmi - compito immane, per uno del suo mestiere.
Come quasi tutti i giudei di Salonicco, l’uomo portava un turbante giallo. Al pari di Efrem, del domestico e dei passanti che occhieggiavo dalla finestra, mi parve di un’estrema, sorvegliata eleganza.
Un autentico sbalordimento mi coglieva quando vedevo, giù nella via, passeggiare donne cariche di ornamenti e gioielli, altere nei loro abiti dalle tinte accese. Quella cura nel vestire mi sembrava in contrasto con il tanfo intollerabile e il lordume del quartiere. Non avevo mai visto donne ebree tanto agghindate, all’infuori di mia madre. Per ore, da bambino, la guardavo farsi bella, pittarsi, decorarsi collo e orecchie con ori e pietre ereditati da sua madre e sua nonna.
Nella mia cattività, che si prolungava da una settimana, desideravo quelle donne come mai avevo desiderato qualcosa. Pure quelle più anziane. A Ragusa mi ero tenuto alla larga dalle femmine, forse perché a tradirmi era stata la mia amante, o perché incombeva ovunque il ricordo di mia madre. Avevo cercato liquore e vino, e anche ora mi mancavano, certo, ma mai quanto l’amplesso con una donna.
A Venezia, una volta, avevo visto una scimmia in gabbia portata dall’Africa. Si agitava e strillava, il membro turgido ed eretto come uno stilo.
Così mi sentivo, da solo, in quella stanza. Dalla città alta, cinque volte al giorno, scendeva il canto del muezzin. Il fraseggio allungato e vibrante suonava come un inno al mio desiderio.
Una mattina presto orecchiai, fuori nel corridoio, una voce femminile. Doveva essere una serva, passò rapida canticchiando e causandomi un tuffo al cuore. Quando entrò Efrem lo affrontai. Chiesi del vino e una donna.
- Kero una muyer, - gridai. - Y kero vino!
Tentai di mettergli le mani al collo, ma fui immobilizzato da due enormi servitori. Mi spinsero contro il muro e mi tennero lì appiccicato finché non mi calmai.
Efrem si avvicinò.
- Sta bene, veneziano, - disse. - Ti faccio portare fuori.
Gli uomini si chiusero la porta alle spalle, lasciandomi seduto a terra.





15.

Nel prato di turbanti gialli ne spuntava qualcuno bianco, a indicare un maomettano, e più di rado qualcuno azzurro, a segnalare un cristiano greco.
Faticavo a credere a quel che vedevo e sentivo. Giudeo mascherato da cristiano travestito da giudeo, l’anima più volte rigirata come un paio di brache, camminavo in una piccola Spagna d’Oriente che ricordava, senza esserlo, il mondo della mia infanzia. Ne era forse la versione moltiplicata, mille volte più intensa e potente. Il giudesmo riempiva le strade e la testa, provocava un’ebbrezza inquieta, sentimento mai provato prima. Non avevo mai udito quella lingua parlata da tanti uomini e donne tutti insieme.
Per una ragione che mi appariva oscura, i sefarditi cacciati da Castiglia e Aragona, dal Portogallo e da Granada, dalla Sicilia e dal Regno di Napoli, avevano scelto proprio quella città per la loro nuova vita. Città di traffici e negozi, di conciatori e tessitori, lanaioli e tintori, folle variopinte e odori forti. I giudei di Salonicco fabbricavano le uniformi dei giannizzeri ottomani, e cucivano abiti apprezzati e venduti in buona parte dell’impero. A Salonicco brillava l’argento, come mai ne avevo visto: arrivava ogni giorno da miniere poco distanti e lo lavoravano artigiani giudei che ne traevano gioielli, gli stessi che vedevo al collo, ai polsi e ai lobi delle donne intorno a me. Donne bagnate d’essenze che mi turbavano, donne le cui movenze scuotevano il mio corpo, giù in basso. Il desiderio di fornicare divenne scalpitio. L’impazienza mi tentava a ogni passo, scartare, partire di corsa, cercare una puttana senza attendere ancora. Ma non potevo. Mi scortavano tre uomini, uno a ciascun fianco e il terzo appresso alle terga. Mi chiesi se avessero l’ordine di uccidermi nel caso avessi tentato di scappare. Quanto tempo e denaro aveva investito Nasi su di me? Troppo per non arrivare sino in fondo, o troppo poco perché non fossi sacrificabile?
Entrammo in un vicolo e il cambiamento fu repentino. In un attimo eravamo passati dal rumore e colore della strada principale all’ombra e alla quiete di un anfratto, via corta e stretta, di case addossate l’una all’altra. Uno dei custodi bussò a una piccola porta. Aprì un uomo ancora più piccolo, un nano, turbante azzurro e barba lunga, giacca e calzoni bianchi, babbucce rosse.
L’uomo che mi aveva tallonato fino a lì si rivolse all’ometto in greco, con un tono che mi parve spiccio e greve di disprezzo. L’ometto ci fece entrare.
Dentro, ancora una sorpresa. Una dimora elegante: lucerne illuminavano tappeti dai bei disegni, vassoi con bicchieri di tè campeggiavano su tavoli bassi accanto a cuscini e divani, e su mobili di legno massiccio c’erano oggetti di gusto, come vasi decorati e piccole statue. Oltre quel primo stanzone, una porta aperta dava su una scala.
Con un cenno l’ometto mi esortò a salire. Fissai le mie guardie, una dopo l’altra. Mi rivolsero occhiate di spazientito assenso, come a dire: «Che aspetti? Non abbiamo tutto il giorno».
Quasi correndo infilai la scala e salii fino a un corridoio. Su una soglia, in controluce, una sagoma femminile. Aguzzai la vista e mi accorsi che era già svestita. Nuda come appena venuta al mondo. Mi avvicinai, la spinsi su un letto largo e basso. Il lenzuolo odorava di fresco, come lei. Una lampada alla mia destra, un’onda di capelli scuri, mani abili che mi sbottonavano e stringevano. La feci stendere, ma troppo tardi.
Imprecai a voce bassa, guardando giù. Il membro floscio, vuoto, il seme a impiastricciarmi pube e addome. Seme uscito in fretta e furia, giusto il tempo di abbassarmi i calzoni. Seme che si era liberato senza aspettarmi. Si era liberato, lasciando me in catene. Mentre la donna si alzava sentii l’imbarazzo, il dubbio se parlare, se dire qualcosa, oppure scivolare via, subito, svanire.
Avevo ancora il turbante in testa. E sotto il turbante, dentro la testa, l’eco di uno strillo.
Un verso di scimmia, o uno sghignazzo.
Qualcuno, dal fondo della mente, rideva di me.



16.



...continua


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