Altai

Approdammo. Non vidi che case di legno, in tutto simili a quelle sull’altra sponda, ma assai meno fitte e in numero di gran lunga inferiore. Fui portato in una di queste, che sporgeva sull’acqua dalla cima di un pendio. L’interno era comodo e ben decorato. Efrem si mise ad armeggiare con il braciere per riscaldare la stanza. Dopo alcuni tentativi, le fascine iniziarono a bruciare.
Mi rivolse il suo consueto sorriso, ma capii che questa volta si stava congedando.
- Tengo degli altri affari da sbrigare in città, prima che torno indietro.
L’idea di rimanere solo non era affatto confortante.
- Io mi fermo qui, vero?
Efrem scosse il capo.
- C’è ancora un poco di strada, - disse.
Si spostò verso una porta laterale e la spalancò, rivelando una terrazza coperta. Lo raggiunsi sulla soglia, davanti ai fiocchi candidi che continuavano a scendere. Oltre il braccio di mare grigio si estendeva la città. Efrem indicò a destra, dove lo stretto si inoltrava in direzione del Mar Nero.
- Palazzo Belvedere sta sull’altra sponda. La residenza dei Nasi.
Il gelo ci spinse a rientrare.
- Lo incontrerò?
Tornò a guardarmi.
- Se succederà, ascoltalo -. Chinò appena il capo in segno di saluto. - Suerte... - fece una pausa appena percettibile, - amigo mio.
Non sapevo che dire, quindi rimasi in silenzio. Avevo imparato ad apprezzare la sua espressione simpatica, ma certo non potevo chiamarlo amico. Era stato cortese con me. Più simile a un padrone di casa e a un compagno di viaggio che a un carceriere. Uscì dalla stanza e dalla mia vita con leggerezza, così come ci era entrato.
Rimasi solo. Ignoravo se da basso ci fosse qualcuno addetto a sorvegliarmi e non me ne importava.
Mi distesi sul letto, con tutti i vestiti addosso. Mi sentivo stanco, provato dal viaggio e dall’incertezza. Ero nel nido del serpente, prossimo al più grande nemico di Venezia.
Giuseppe Nasi. Il Dannato. Il Maledetto. Il Diavolo in persona. L’Ebreo favorito dal Sultano. Noto in Europa anche come Juan Micas o João Miquez. Avevo ascoltato più dicerie e carpito più notizie sul suo conto che sul Gran Turco. Per anni avevo combattuto, scovato e punito i suoi agenti.
Adesso ero nelle sue mani.
Il letto era troppo alto, e troppo soffice.
Mi addormentai alle prime luci dell’alba.



Interludio


Il viaggiatore del mondo
Fuori dall’Europa, Rabi’al Awwal - Shabban 977
(settembre 1569 - febbraio 1570)


Il vecchio rilegge la lettera. Segni sulla carta, affidati da una donna a un agente di commercio. Parole che da Costantinopoli hanno viaggiato alla volta dell’Egitto in fondo a una bisaccia, poi fino al Mar Rosso a dorso di cammello, quindi di nuovo su un legno veloce, sospinte da correnti favorevoli, per toccare infine le sponde dell’Arabia Felix, duemila miglia a sudest delle acque del Bosforo.
Mokha. Città del caffè, crocevia conteso e condiviso da arabi, turchi, abissini, portoghesi. Mokha, teatro di una ribellione, per mesi occupata dagli insorti. La flotta imperiale ha appena ristabilito l’autorità di Selim II, e i ribelli sono fuggiti sugli altipiani. Non sono guerrieri, ma coltivatori di caffè che hanno impugnato le spade e la fede sciita, stanchi delle ruberie, della corruzione dei funzionari ottomani. Di nuovo una rivolta di contadini. Di nuovo la religione dei pezzenti... e degli affari.
Il vecchio è rimasto. Il tempo di andare e partire appartiene alle sue vite precedenti. Almeno così credeva, prima di quella lettera.
Rimira la firma, ne osserva il tratto incerto, non più fermo come un tempo, quando si sognava accanto a quella donna fino all’ultima stagione della vita.
Difficile dire quando le loro strade abbiano preso a separarsi. Un giorno ha chiesto di poter seguire i commerci da quella stazione in fondo all’Arabia, e non ha ricevuto un rifiuto. Lei non ha posto obiezioni. Sapeva, aveva sempre saputo che il viaggiatore del mondo non può fermarsi, c’è sempre un altro luogo da vedere prima di chiudere gli occhi, un posto sconosciuto dove essere sepolti. Che il vecchio Ismail se ne andasse per la rotta del caffè, era scritto nel suo destino.
Eppure, ora lo invita a percorrere quella rotta a ritroso. Prima che sia tardi.
Possono le parole smuovere una montagna? Perché questo è il vecchio, un blocco di roccia eroso dal tempo, che la missiva vuole trarre dal suo alveolo, nel più remoto angolo dell’impero.

Il vecchio si muoverà, ma dovrà attendere che venga l’inverno, e con esso il monsone che soffia verso nord. Le carovane del caffè scenderanno dai monti come serpenti attirati dall’acqua, e le navi di Yossef Nasi, sazie di merci e allineate lungo il molo, aspetteranno il momento di partire. Le vele aguzze delle feluche risaliranno il Mar Rosso fino a Suakin, città di corallo, dove i barconi di Suez caricano schiavi e tesori speziati.
Attendere il monsone. Soltanto questo ritarda il viaggio? O c’è anche il timore di affrontare il passato, il peso del chiudere i conti di una vita, la paura di vedere nella morte dell’amata la fine dei propri ricordi?

Viene l’inverno, e il vecchio può dedicarsi al bagaglio. Quand’era più giovane, quel rito scandiva i suoi giorni.
Mette in una sacca i fogli scritti di suo pugno, e d’impulso si tocca in mezzo al petto. Sotto la stoffa sente la sagoma dell’antica moneta, con inciso il credo del regno dei folli: «Un Dio, una fede, un battesimo».
Le sue vite passate sbiadiscono e non sa cosa lo attenda. Intorno a lui i contorni si fanno vaghi. Perciò porta con sé le parole, tutte quelle che ha vergato nel corso degli anni.
Non basta.
Prende anche un frammento di specchio, per esser certo di riconoscersi alla fine del viaggio.
Prende con sé le pistole e i due gemelli Hafiz e Mukhtar, silenziosi e taglienti come lame.
Ali Hassan annuncia che andrà con lui. L’asceta amico di Dio ha già preparato la sacca.

Giunti a Suez affidano il carico di caffè agli agenti locali della famiglia Nasi poi ripartono, con una carovana di cammellieri diretta ad Arish, dove salpano le navi per la Terrasanta.

...continua


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