Altai

Alzai la voce per sovrastare il rumore del vento.
- Dobbiamo convincere Muezzinzade Ali a evitare le galeazze, costi quello che costi.
Lessi la preoccupazione sulla faccia larga del barese.
- Muezzinzade non è un calascione. Se lo conosco, non rinuncerà a dare battaglia, - disse. - L’acque ca non ha fatte in ciele sta. Dio darà la vittoria a chi la merita.

Mimi Reis aveva reinvestito il denaro guadagnato nell’impresa di Nasso allestendo una galeotta, che i turchi chiamano kalita. Le navi sottili del Sultano sono simili a quelle cristiane e sono migliori veliere, benché peggio costruite. Sono arcuate, con prua e poppa molto alte sull’acqua, e armate più alla leggera. L’equipaggio - quasi tutti greci e albanesi, molti rinnegati italiani, qualche moscovita e polacco - era ben nutrito e riceveva tre aspri al giorno di paga. Mimi Reis aveva scelto personalmente ogni rematore. Niente schiavi: voleva essere certo che, in caso di confronto, tutti prendessero le armi. Il vento era favorevole, il mare calmo. La nave filava sulle onde, tutto appariva propizio al viaggio, ma l’aspettativa e la preoccupazione aleggiavano tra ponte e banchi come una nube impalpabile, persistente. Dormivo poco e male, e non si trattava dei soliti disagi di chi va per mare.
Erano incubi, come scenario una città affiorante dall’acqua, circondata da mura sbrecciate, semidistrutte. La scena comprendeva tutta la mia vita, tutti i volti e le voci che appartenevano ai miei giorni. Arianna mi tradiva ogni notte, Dana mi aspettava all’ombra del carrubo, e parlava ebraico. Ogni notte arrivavo in un luogo che era Ragusa, ed era Salonicco, Costantinopoli vista dal mare, e Famagosta circondata di cadaveri.
Quella notte il Tuota vagò sulla corsia della kalita. O forse era Ismail. Lo vidi chiudere gli occhi a un fante caduto in battaglia, e rimproverare Spirito Santo, il nostro cane, per avere morso un piede del cadavere.
Infine parlò.
La differenza tra il sonno del giusto e quello dello stolto è che lo stolto non si alza più.
Mi svegliai di soprassalto. Non era ancora l’alba. Mi levai in piedi, evitai i corpi dormienti nella stiva, e presi ad aggirarmi sulla corsia, chiedendomi se davvero il Tuota fosse con noi sulla nave. Passai il resto della giornata aiutando i marinai nei gesti consueti, e pregando che la sorte ci concedesse di fare in tempo.
A prua, mi fermavo spesso a guardare il cannone di bronzo, l’arma principale della kalita. C’erano altri pezzi più piccoli, per i quali Mimi Reis mostrava una strana predilezione.
- Questo viene dalle Fiandre, - diceva. - Quell’altro da Brescia. Mi sono costati un occhio della testa.
Metalli. Rame e stagno per fare il bronzo. Ferro. Oro. I destini del mio popolo erano legati al ferro inglese. L’oro si mutava in cannoni, e il fuoco e la pietra vomitata da quegli artefatti si trasformava di nuovo, presto o tardi, in oro. Solve et coagula. I cannoni di Mimi Reis appartenevano a un gioco che si estendeva sul mare, sugli oceani a sud e a ovest, fino ai confini del mondo.
Il pirata pugliese mi aveva chiesto solo una volta notizie di Ismail. Io avevo dovuto rispondere che se ne era andato, che era tornato alla sua casa. Mimi, si vedeva, era dispiaciuto. Quando mi aveva veduto a Bandirma e gli avevo chiesto di raggiungere la flotta del Sultano, aveva sperato che anche il vecchio fosse della partita.
La mattina del 12 Jumada al-Awwal incrociammo un caicco barbaresco. Accostati gli scafi, Mimi Reis chiese notizie della flotta. Avemmo una conferma importante: la flotta cristiana aveva passato il capo Bianco ed era in vista di Cefalonia. Quella turca, invece, era alla fonda a Lepanto.
Mimi Reis mi diede di gomito.
- Che t’avevo detto?
Calcolò che avremmo incrociato la flotta cristiana fra il 17 e il 18, in capo a cinque, sei giorni, presso le isole Echinadi, che i veneziani chiamano Curzolari. Forse saremmo riusciti ad avvertire Muezzinzade Ali e gli altri ammiragli prima che accettassero lo scontro.
Eravamo prossimi al destino. Io ripassavo mentalmente il discorso che mi ero preparato, cercando in turco i termini più appropriati, secondo una retorica gradita a coloro che dovevano ascoltare e credere a questo giudeo che si accaniva a interferire con la loro guerra. Temevo che non mi avrebbero dato credito, e più ci avvicinavamo al momento della verità, più la nostra missione mi appariva disperata.
Nei giorni successivi all’incontro con il caicco, udii spesso Mimi Reis imprecare contro la nave su cui eravamo e contro la sua lentezza, che ora trovavamo esasperante. Poi, all’improvviso, il suo umore migliorava. Lo vedevo andare a prua, a parlare con i suoi amati cannoni in ferro battuto, a carezzarne canna e culatta con il palmo della destra.

18.


Sul ponte stavano scannando un montone, perché la ciurma aveva bisogno di carne, specialmente i rematori, che da molte ore aiutavano il vento a spingere la nostra rincorsa. Guardavo il sangue formare una pozza e le mosche sciamare, quando una voce gridò che molte vele erano in vista. Sull’orizzonte, la flotta era una lunga fila nera.
Lo strumento ottico di Takiyuddin mi consentì di passare in rassegna tutto un lato dello schieramento.
Galee ponentine, alcune genovesi, altre toscane, molte spagnole. C’erano anche navi sottili veneziane. C’era una galeazza, enorme, trainata da altre galee, fuste e galeotte.
La galeazza era irta di bocche da fuoco. La coprivano lungo tutto il perimetro, a prua, sulle fiancate, sull’altissimo castello di poppa. Puntai il tubo più lontano, e vidi avanzare le navi turche. Poco oltre, verso la costa, si distinguevano le sagome bluastre delle Curzolari.
La flotta ottomana appariva come una selva che uscisse dal golfo di Corinto. Più vicino a noi, i cristiani manovravano. Io non ero esperto di guerra navale, e non capivo il senso degli spostamenti. Ebbi l’impressione che un fianco ripiegasse, o si preparasse alla fuga. Chiesi il parere del capitano.
Mimi Reis guardò nel tubo, impacciato. Levò l’occhio e lo ripose sulla lente più volte.
- Dio è grande, - mormorò. Poi osservò a lungo. Alla fine, mi riconsegnò lo strumento. - Ma quale fuga? Si dispongono per la battaglia.
- Andiamogli incontro, allora. Possiamo ancora farcela.
Il barese annuì e diede l’ordine.
Velatura completa, tutti i rematori sui banchi, la kalita prese a filare verso la flotta ottomana, passando oltre il fianco destro dello schieramento cristiano.
- Ci avvistano. Siamo troppo vicini, - dissi.
- Sono attenti a quello che hanno davanti, e anche se ci vedono, mica sanno chi siamo. E anche se lo sanno, non rompono la formazione per inseguirci.
Udimmo un colpo di cannone. Era un segnale dei cristiani.
Mimi Reis diede ordine di portare in corsia armi e cibo. Picche, archi, archibugi, corsetti di cuoio ed elmi vennero ammonticchiati e disposti in buon ordine lungo tutta la nave, pronti a essere imbracciati e indossati. Gallette, arance, formaggio, datteri, fichi secchi, barili d’acqua dolce: combattere è estenuante, occorre avere da mangiare e da bere a portata di mano.
Poi Mimi Reis issò un lungo stendardo nero, caratteri moreschi ricamati in oro.
- Che cosa c’è scritto? - chiesi.
- La religione cristiana è una falsa religione. Ma la devo far scrivere pure in italiano, sennò quelli mica capiscono.
Puntavamo sull’ala sinistra della flotta ottomana, e più ci avvicinavamo, più il sorriso di Mimi si allargava.
- Animo, amico -. Stese la mano verso il mare aperto. - Vedi? Laggiù ci sono tutti i migliori capitani. C’è Ucciali, il calabrese. C’è Caracoggia, c’è il comandante Scirocco. C’è il figlio del Muezzin, il coraggio non gli manca di certo. E ci sarà anche Mimi Reis, all’anima di chi v’ha mmuerte.
Puntai lo strumento di Takiyuddin sulle navi cristiane. Le galeazze avanzavano per prime. Vennero lasciate sole, molto più avanti del resto della flotta.
Sei grasse esche per eccitare la sete di vittoria di Muezzinzade Ali.
Un’ondata di sconforto mi investì. Non c’era modo ormai di raggiungere l’ammiraglia ottomana e di avvertire Muezzinzade del pericolo che incombeva sulla flotta. Ancora una volta arrivavo tardi.
Il sole era ormai a picco quando ci trovammo sulla linea mezzana che divideva le flotte e vedemmo le navi turchesche lanciarsi in avanti.
Era chiaro che Muezzinzade pensava di passare tra quelli che riteneva inoffensivi barconi e portare l’attacco al cuore dello schieramento cristiano. La trappola dei veneziani era pronta a scattare.
Accanto a me, Mimi si sbracciava, come se dall’ammiraglia ottomana potessero vederlo.
- Vattinn’ au larg, Muezzinzade! Vattinn’!

...continua


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