Altai

Un’onda di orrore mi travolse. Mi girai di scatto verso Arianna: si era nascosta il viso con le braccia. Balzai in piedi. Corsi alla finestra che dava sulla calle. Gettai un’occhiata nella fessura tra gli scuri.
Cinque sgherri attendevano presso il portone. Ne riconobbi due. I miei uomini più fidati.
Gualberto Rizzi e Marco Tavosanis.
Dovevano tutto a me. Erano quindi i più indicati per avermi. Gli uomini odiano i benefattori. Beneficia qualcuno, e nove volte su dieci avrai un nemico implacabile.
La mia amante si era ritratta all’estremità del letto e coperta con il lenzuolo. La paura assumeva le vesti del pudore. Aveva gli occhi umidi.
- I me ga costretto, Emanuele. Contro ogni mia volontà.
La mia amante, l’unica persona di cui mi fidassi, aveva venduto il segreto delle mie origini. Spogliate Emanuele e vedrete Manuel, il ragazzo giudeo venuto da Ragusa.
Serviva un colpevole per la tempesta et tulerunt me, giudeo, impostore, mentitore, et stabit Venetia a fervore suo.
Precipitarmi giù, affrontare gli scagnozzi a viso aperto. Contando sulla sorpresa e sul pugnale, avrei potuto sopraffare due, tre uomini, ma non tutti.
La fuga non è scappare a gambe levate mentre altri inseguono.
La fuga è sparire.
Arianna si avvicinò di qualche passo, lasciando cadere il lenzuolo. Il volto era segnato dall’ansia, ma esprimeva fermezza.
- Non ti avranno, se farai come dico. C’è un passaggio che porta alla casa di fianco, che è disabitata. Di lì, uscirai sul retro.
Rimasi in piedi, fermo.
Poi mi scossi.

6.


Dio mostrava almeno l’ombra della compassione, se ero sfuggito alle mani di Rizzi e Tavosanis. Mani che avevano agito al mio comando e ora volevano la mia libertà e la mia vita. Mani che erano il pugno e la stretta dell’inquisitore, come io ne ero stato gli occhi, le orecchie e la favella sul selciato e sull’acqua di Venezia.
Il cielo era buio, da nordest tirava vento e si portava via l’estate. Io camminavo per le calli che non avrei più chiamato casa. Come un grano di ghiaia dopo una dura caduta si incista sotto la pelle, e occorre spingerlo fuori praticando un taglio, e la pietra se ne esce accompagnata dal sangue, così Venezia mi rigettava.
La gente mi notava. Dovevo rallentare l’andatura, smettere di guardarmi alle spalle. Ero un fuggiasco, il mio corpo lo proclamava. Qualcuno mi indicò, ma io avevo già svoltato l’angolo, correvo, un altro angolo, un altro ancora, e infine tornavo a camminare, perché nessuno mi aveva seguito. Dovevo mantenere la mente lucida, riflettere.
Non potevo tornare a casa mia. Era indubbio che la tenessero d’occhio. No, dovevo sparire alla svelta. Il denaro che avevo in tasca non era molto, bastava appena per lasciare la città, ma avevo un deposito consistente presso il banco dei Braun, al Fondaco dei Tedeschi. Erano soldi messi da parte per le evenienze peggiori ed era giunto il momento di riscuoterli. Li avevo affidati a un banchiere tedesco per tenerli lontani da occhi indiscreti.
Affrettai di nuovo il passo e mi diressi verso Rialto. La necessità di muovermi verso l’interno della città lottava contro l’istinto di raggiungere il mare, una barca, la salvezza. Mi imposi di rimanere calmo, freddo come quando interrogavo i sospetti. Scelsi un tragitto attraverso le calli meno battute, e quando sbucai nei pressi del Fondaco attesi alcuni minuti, prima di muovermi rasente il muro verso l’ingresso dell’edificio. Pochi passi guardinghi e mi bloccai di nuovo. Qualcosa mi tratteneva, una sensazione, un presentimento dovuto agli anni di esperienza sul campo. Quante volte avevo fatto la posta a una spia o a un sobillatore? Mi appiattii contro un portone, coperto dall’andirivieni di carretti e facchini. In mezzo all’incessante movimento delle merci, l’occhio poté cogliere l’immobilità.
Il primo stava all’angolo di una calle, appoggiato al muro. Muoveva lo sguardo con lentezza, passando in rassegna chiunque gli transitasse davanti.
Il secondo era proprio accanto all’ingresso. Una cappa scura gli spioveva dalle spalle a ricoprirlo per intero, celando eventuali armi.
Ce n’era un terzo. C’è sempre un terzo. Non l’avevo notato subito perché era a pochi passi da me. Controllava il tratto di strada che mi separava dall’ingresso.
Attesi il momento in cui volgeva la testa nell’altra direzione, per scivolare fuori dal nascondiglio e tornare indietro, negli oscuri budelli di Venezia, via, lontano dalla morte che mi aspettava al varco, via, i piedi volavano sul selciato, liberi di assecondare l’istinto alla fuga.
Sul mio petto pendeva una catena d’oro con una medaglia. Un dono di mio padre: su una faccia la Santa Croce, sull’altra il Leone di San Marco, con il libro chiuso e la spada sguainata. Il vessillo di guerra dell’Armata.
Guerra. La Repubblica era in guerra contro Emanuele De Zante, fedele servitore.
Servitore tradito. Servitore traditore. Fuggitivo.
Avrei potuto cambiare la medaglia in denaro contante, ovunque la sorte mi avesse condotto.
La cosa più importante era fuggire. Al resto avrei pensato dopo.
Raggiunsi un imbarco e contrattai brevemente, concedendo al gondoliere più denaro di quanto gli spettasse. La gondola si mosse, mentre da terra saliva una musica di suonatori ambulanti. Scivolammo sulla lunga ansa del Canal Grande in un pomeriggio plumbeo, anticipo d’autunno. L’attività incessante che animava la città non si era ancora placata. Imbarcazioni solcavano le acque, uomini si agitavano a riva.
Nostalgia, rimpianto e rabbia chiudevano il cuore e serravano gola e viscere con un nodo.
Sfilarono i palazzi, seminascosti dalla tenebra. Più che distinguerli con nettezza, ne avvertii la mole. La memoria riempì i vuoti dove gli occhi non coglievano.
Ogni immagine che si affacciava alla mente scavava un solco nell’anima. Le note che avevano salutato la mia partenza continuarono a suonare nell’eco.
Fu così che abbandonai Venezia, certo di non rivederla mai più.



7.


- Ti volir cunciar partida, Tuota?
Furono quelle le parole, dopo giorni di silenzio ruvido, trascorsi in un cantone di mondo dove il Po, come ubriaco, si torce e serpeggia prima di buttarsi in mare. Le accompagnai con un sorriso storto sul viso stanco e infangato, mentre la mano destra sembrava chiedere l’elemosina e in realtà mostrava i dadi - i meno attesi tra gli oggetti, nel mezzo di una palude. Li avevo intagliati nel legno di un pioppo morto, incidendo i numeri con la punta del coltello: i, ii, iii, iv, v e vi. Nulla più che una burla, un gingillo, il pensiero di un saluto da buffone all’uomo che forse avrei incontrato. L’uomo che mi aveva fatto da padre.
«Vuoi giocare, Tuota?» Vuoi gettare questi dadi insieme a me? La sorte che ieri mi portava in palmo di mano oggi mi è avversa, mi afferra e mi strizza come un pomo marcito.
All’improvviso, da gentiluomo veneziano mi ritrovavo giudeo fuggiasco, accusato di aver tradito la Repubblica. Avevo i piedi nella melma e rigiravo in testa la frase.
- Ti volir cunciar partida, Tuota?
Proprio così, nella lingua bastarda che usavano i forestieri di ogni porto del Mediterraneo, da Genova a Tripoli, da Smirne a Gibilterra. La lingua franca dei corsari, dei mercanti, dei contrabbandieri, lingua di ogni reo mercimonio, persino lì, tra i canneti, al canto del gufo e del barbagianni, su un isolotto del Po di Fornaci. In quelle lande il fiume impazzisce, nelle ultime miglia tocca l’apice del desiderio, brama estinguersi nell’abbraccio col grande golfo. Esce di senno e si perde in labirinti, folli ibridi di terra e acqua.
Là, in un capanno mezzo caduto, mi ero nascosto dopo aver lasciato Venezia. Ero pazzo quanto il fiume, non meno confuso di lui, ma sapevo che, presto o tardi, sarebbe arrivata una barca, e su quella barca dei fuorilegge.

...continua


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