L'avaro

AMB. I fatti miei voi non li sapete.
FER. Mi disse pure vostro figliuolo...
AMB. Mio figliuolo era un pazzo, pieno di vanità, di grandezze. La moglie lo dominava, e gli amici gli mangiavano il cuore.
FER. Signore, se voi lo dite per me, in un anno che ho l'onore di essere in casa vostra, a solo motivo di addottorarmi in questa università, credo che mio padre abbia bastantemente supplito.
AMB. Io non parlo per voi. Mio figliuolo vi voleva bene, e vi ho tenuto in casa per amore di lui; ma ora che avete presa la laurea dottorale, perchè state qui a perdere il vostro tempo?
FER. Oggi aspetto lettere di mio padre; e spero che quanto prima potrò levarvi l'incomodo.
AMB. Stupisco che non abbiate desiderio di andare alla vostra patria a farvi dire il signor dottore. Vostra madre non vedrà l'ora di abbracciare il suo figliuolo dottore.
FER. Signore, la mia casa non si fonda su questo titolo. Credo vi sarà noto essere la mia famiglia...
AMB. Lo so che siete nobile al par d'ogni altro; ma ehi! la nobiltà senza i quattrini non è il vestito senza la fodera, ma la fodera senza il vestito.
FER. Non credo essere dei più sprovveduti.
AMB. Oh, bene, dunque, andate a godere della vostra nobiltà, delle vostre ricchezze. Voi non istate bene nella casa di un pover'uomo.
FER. Signor Don Ambrogio, voi mi fareste ridere.
AMB. Se sapeste le mie miserie, vi verrebbe da piangere. Non ho tanto che mi basti per vivere, e quel capo sventato della mia illustrissima signora nuora vuole la conversazione, la carrozza, gli staffieri, la cioccolata, il caffè... Oh povero me! sono disperato.
FER. Non è necessario che la tenghiate in casa con voi.
AMB. Non ha nè padre, nè madre, nè parenti prossimi. Volete voi ch'io la lasci sola? In quell'età una vedova sola? Oh! non mi fate dire.
FER. Procurate ch'ella si rimariti.
AMB. Se capitasse una buona occasione.
FER. La cosa non mi par difficile. Donna Eugenia ha del merito, e poi ha una ricca dote...
AMB. Che dote? che andate voi dicendo di ricca dote? Ha portato in casa pochissimo, e intorno di lei abbiamo speso un tesoro. Ecco qui la nota delle spese che si son fatte per l'illustrissima signora sposa; eccole qui; le tengo sempre di giorno in tasca, e la notte sotto il guanciale. Tutte le disgrazie che mi succedono, mi pajono meno pesanti di queste polizze. Maledetti pizzi! maledettissime stoffe! oh moda, moda, che tu sia maledetta! Ci gioco io, che se ora si rimarita, queste corbellerie, in conto di restituzione, non me le valutano la metà.
FER. Dite nemmeno il terzo.
AMB. Obbligato al signor dottore. (mostra di soler partire, poi torna indietro) Mi scordava di dirvi una cosa.
FER. Mi comandi.
AMB. Così, per mia regola, avrei piacer di sapere quando avete stabilito di andarvene.
FER. Torno a ripetere che oggi aspetto le lettere di mio padre.
AMB. E se non vengono?
FER. Se non vengono... Mi sarà forza di trattenermi.
AMB. Fate a modo mio, figliuolo: fategli una sorpresa; andate a Mantova, e comparitegli all'improvviso. Oh, con quanta allegrezza abbracceranno il signor dottore!
FER. Da qui a Mantova ci sono parecchie miglia.
AMB. Non avete denari?
FER. Sono un poco scarso, per dire il vero.
AMB. V'insegnerò io, come si fa. Si va al Ticino, si prende imbarco, e con pochi paoli vi conducono fino all'imboccatura del Mincio.


SCENA III

Don Fernando solo.

Ecco a che conduce gli uomini l'avarizia. Don Ambrogio nobile e ricco, reputa sè medesimo per il più vile, il più miserabile. E si può dire ch'egli sia tale, giacchè la nobiltà si fa risplendere colle azioni, e le ricchezze non vagliono, se non si fa di esse buon uso. Doveva andarmene di questa casa tosto che cessò di vivere l'amico mio Don Fabrizio, ma appunto la di lui morte è la cagione per cui mi arresto. Ah sì, il rispetto ch'io ebbi per donna Eugenia, vivente il di lei marito, si è cambiato in amore da che ella è vedova; e alimentandosi la mia speranza... Ma quale speranza posso aver io di rimanere contento, se ovunque mi volgo, trovo degli ostacoli all'amor mio? Ella non sa ch'io l'ami, e, sapendolo, può dispregiarmi. Ho due rivali possenti, che la circondano. Mio padre non vorrà per ora ch'io mi mariti; sarebbe per me la migliore risoluzione il partire. Sì, partirò; ma non voglio avermi un giorno a rimproverare d'aver tradito me stesso per una soverchia viltà. Sappia ella ch'io l'amo, e quando l'amor mio non gradisca... Eccola a questa volta. Vorrei pur dirle... ma non ho coraggio di farlo. Prenderò tempo... mediterò le parole... Oh cuor pusillanimo! ho rossore di me medesimo. (parte)


SCENA IV

Donna Eugenia, poi Cecchino

EUG. E fino a quando dovrò menar questa vita? Chi può soffrire le indiscretezze di Don Ambrogio? Le passioni d'animo hanno per sua cagione condotto a morte il povero mio marito, ed ora codesto vecchio vorrebbe farmi diventar tisica per la rabbia, per la disperazione. Sì, voglio rimaritarmi. Ma non basta che io lo voglia, conviene attendere l'occasione, e se non son certa di migliorare il mio stato, non vo' arrischiarmi di ricadere dalla padella alle brace.
CEC. Signora, il signor Conte dell'Isola brama di riverirla.
EUG. È padrone. (Cecchino parte) Questi non sarebbe per me un cattivo partito. È un cavaliere di merito, ma la di lui serietà mi riesce qualche volta stucchevole; al contrario del Cavaliere, che ha dello spirito un poco troppo vivace. E pure ad uno di questi due vorrei ristringere la mia scelta. So che mi amano entrambi, e so che una impegnata rivalità... Ma ecco il Conte.


SCENA V


...continua


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