L'impostore

Carlo Goldoni

L'IMPOSTORE

Commedia di tre atti in prosa.




DEDICA

ALL'ILLUSTRISSIMO
SIGNOR CONTE
GASPARO GOZZI

Se mai ho desiderato di possedere lo stile vostro, valorosissimo Signor Conte, ora è certamente che lo desidero più che mai, intraprendendo d'indirizzare a Voi una mia lettera, che non da Voi solamente, ma dal Pubblico sarà letta. Ma come e da chi imitata può essere la maniera vostra di scrivere, la quale conserva sì bene il buon gusto del fraseggiare de' migliori Scrittori antichi Italiani, ed ogni difetto de' tempi loro evitando, gratissima riesce ai più delicati moderni? Facendo leggere il mio Cavalier di buon gusto, gli pongo in mano un Tomo delle vostre Lettere, giudicando io che niente di più grazioso, e di più saporito, e di più brillante possa leggersi in tal materia. In questo nostro secolo entrato è il baco di stampar Lettere a chiunque sa tenere la penna in mano. Ve ne sono delle dottissime, dell'utili, e delle amene; ma mi perdonino tutti gli altri, non leggonsi delle vostre le meglio scritte; né solamente nelle parole consiste il merito loro, ma Voi, che siete un accuratissimo osservator degli antichi, succhiate il meglio de' Greci e de' Latini Scrittori, e col criterio vostro, e colla vostra ammirabile facilità, le massime, le verità, le dottrine spargete a dovizia ne' fogli vostri.
Eppure scrivere mi converrà collo stile mio dal vostro così lontano, poiché parmi più acconcia cosa seguire ciò che la natura mi detta, anziché, o per fare ad altri la corte, o per vanità di far meglio, imitare stentatamente l'altrui maniera. La stessa regola prefissa mi sono nella costruzione delle mie Commedie. Non ho cercato imitare né i Greci, né i Latini, né i Francesi, né gli Spagnuoli, né gl'Italiani nostri medesimi, ma fissando la meta nella verità e nella ragione, mi sono condotto poi per quella via, per dove la natura mi ha trasportato. Vedrete nelle medesime Commedie mie, che non ho nemmeno talvolta imitato me stesso, voglio dire che non si somigliano fra di loro moltissimi de' parti miei, alcuni de' quali parrà a taluno incredibile che derivati sieno dalla medesima testa, e scritti dalla medesima penna. Ciò vuol dire che, a tenore degli argomenti, la natura mi conduce per diverse strade, ed io la seguito ciecamente, talora senza promettermi nulla del fine dell'opera, e sempre incerto dell'esito e del destino. In due maniere parmi che riuscir si possa nell'arte comica: o arrischiando per se medesimi che possa credersi bene accetta. Terenzio ha seguito onninamente la prima strada; Plauto pare abbia fortunatamente la seconda tentata. Io di quest'ultimo ho avuto il genio, ma non il merito, ond'è, che a mezza via restando, non posso sperare di ascendere a quell'alto grado in cui sono i valenti uomini collocati.
Voi, eruditissimo Signor Conte, siete anche in quest'arte un valentissimo imitator degli antichi: il vostro Edipo non solo imita quello di Sofocle, ma lo supera di gran lunga nella catastrofe e nel movimento delle passioni. Le varie Commedie vostre, tessute colle regole de' buoni autori, eterna lode vi acquisteranno presso gli uomini illuminati, e tanto migliori sono, quanto meno dal volgo intese. Ecco perché ho voluto io arrischiare qualche cosa d'indipendente da' Maestri dell'arte, per guadagnarmi il popolo; e se alcuna delle Commedie mie conserva in parte o in tutto le buone regole, ciò non è perché io le abbia volute osservare, ma perché la natura se ne è servita, per condurre a ragionevole fine quella tal favola disegnata. In fatti, chi ha insegnato ai primi autori le regole? La Natura; e questa natura non è la medesima sempre? Certo che sì. Il punto sta che non opera egualmente in tutti, perché quelle disposizioni mancano, che nel secondarla son necessarie. Dunque chi opera con le leggi va più al sicuro; ma queste leggi convien conoscerle, come da Voi son conosciute, e conviene avere il talento che avete Voi, e studiare quanto Voi avete studiato, e conoscere siccome Voi conoscete.
Parmi ora vedervi cacciar con dispetto il libro che contiene questa mia lettera, fra i vostri libri qua e là per lo studiolo vostro confusi. So che la vostra modestia aborrisce le lodi, come le api il fumo, e chi vi vede andar via in aria umile e dimessa, non giudicherà esser Voi quel gran Letterato che siete, in mezzo a tanti che per il poco che sanno, e molto più per quello che credono di sapere, gonfi sen vanno e pettoruti, e alteri, volgendosi qua e là ad ogni passo, per eccitare gli ammiratori del loro merito alle riverenze e agli omaggi.
Voi però siete molto ben conosciuto dalle persone che contano nella Repubblica Letteraria, e il nome vostro è più noto all'Italia di quello che Voi credete, potendovelo io assicurare; poiché menando io la mia vita in giro, sentovi da per tutto conosciuto e stimato, e dell'opere vostre da per tutto parlasi con applauso e venerazione. Voi non siete solito uscire dalle lagune nostre, e avete ragione di essere di loro contento, poiché l'amore e la stima avete de' principali Soggetti, che onorano la Patria nostra non solo, ma l'Italia tutta. Basta dire, per gloria vostra, che vi ama, ed apprezza, e familiarmente vi tratta Sua Eccellenza il Signor Cavaliere MARCO FOSCARINI, Procuratore di San Marco, stella luminosissima del Veneto Senato, piena di tanta scienza e di tante eroiche virtù, che desta in tutti l'ammirazione ed il rispetto, e mentre va di sua mano tessendo encomi ai più celebri Veneti Autori1, sorpassa tutti nel merito, ed a se stesso forma eterna corona. Questi sono quei Mecenati che onorano un Letterato; non l'aura popolare, non la fortuna, ed io mi attaccherei volentieri al lembo del vostro positivo mantello, per istarmi con esso Voi di soppiatto in così amabile conversazione.
Permettete però alla sincerità mia il poter dirvi, che di una cosa sola il mondo di Voi si lagna; pare a quelli che amano le cose vostre, che siate un po' scarsuccio nel pubblicarle. Non è già che alcuno sospetti a Voi rincrescere la fatica, mentre si sa che non faticano nello scrivere i pari vostri, ma credesi in Voi prevalere la massima di far poco, per timore di non far bene. Che se ció fosse, fareste un torto a Voi stesso, e un pregiudizio notabile al mondo tutto, di che vi prego io, in nome di tanti, riparare il danno, e maneggiare assai più quella benedetta penna che perle e gemme sui fogli imprime, e le anime di chi li legge consola. I saggi che dati avete delle traduzioni del Greco, ci lusingano che opere ci darete in tal materia complete, ed i librai stanno a braccia aperte aspettandole.
Se Voi aveste scritto quanto ho fatt'io, felice il mondo, che più volumi avrebbe di cose buone, e da me non può sperare che cose frivole e scherzose. Ecco qui il frutto de' poveri miei sudori: leggete per carità questa Commedia mia, che ha l'Impostore per titolo, e compassionate il destino che mi ha condannato ad un tal mestiere. Vengo ora a dirvi il motivo che a scrivervi questa Lettera mi ha condotto, avendo fatto sinora come coloro, che andando a consigliarsi sur un articolo d'economia o di coscienza, principiano sì di lontano, che si scordano a mezza via il proposito che li ha condotti. Doveva dirvi sin da principio: dirizzo a Voi questa Commedia mia, perché non solo il giudizio vostro sopra di essa Voi pronunciate, ma perché coll'autorità vostra vogliate graziosamente difenderla e accreditarla. L'ho detto un po' tardi, egli è vero, ma lode a Dio, non ho gettato sinora le mie parole in vano, cose parendomi avere scritto fin qui, che vere sono, e giustissime, e non di laude indegne.
Parmi ora vedervi fare uno di que' vostri dolci sorrisi, e vi odo quasi dire fra Voi medesimo: Che vuol ch'io faccia Goldoni di una Commedia sua? Se è buona, buon pro gli faccia; avrà dal mondo quelle lode ch'ei cerca; ma se è cattiva, non la difenderò certamente, repugnando la sincerità mia a tutto ciò che sente d'adulazione, o d'impostura. Voi parlate arcibene, poiché tale è il carattere vostro, e con tutto ciò io vi dedico l'Impostore. Ma non vi è male; prima di tutto, si sa che i titoli non hanno niente che fare colle persone alle quali le Commedie sono dirette, e se pur pure si vuole che anche il titolo riesca grato, a Voi dovrebbe esser gratissimo quello dell'Impostore, supponendolo come egli di fatto è smentito svergognato e deriso.
Ma un'altra cosa vi farà sorridere un poco più, allora quando cioè osserverete, che la Commedia che a Voi indirizzo è senza donne, come se foste Voi meno amico di quel che siete del loro sesso; vero è che anche di questo sapete distinguere come delle scienze, il meglio, e data prova ne avete ne avete nello scegliervi la Consorte, dotta, saggia, erudita, di dolcissimo estro poetico qual Voi ripiena: notissimo essendo nella Letteraria Repubblica il nome della Signora Contessa Luigia Bergalli Gozzi, e le sue poesie, e le sue traduzioni onorano il di Lei sesso e la Patria nostra. Gentile siete poi ed ameno nelle graziose conversazioni, le quali vengono dalle belle virtuose Donne condite, e vi parrà strano non solamente che a Voi una Commedia senza donne io esibisca, ma che io medesimo, senza un sì bell'ornamento, siami indotto a comporla.
Tutte le cose che dagli uomini si fanno, una ragione hanno ed un fine per cui son fatte; udite dunque la ragione ed il fine, per cui ho voluto una Commedia senza donne comporre.
In tutti i Collegi, che diretti sono dai sapientissimi Padri della Compagnia di Gesù, esercitano essi gli esperti giovani nelle sceniche azioni, gravi Tragedie ed oneste Commedie facendo loro rappresentare; il che molto giova per addestrare nella vita civile la Gioventù, e solleva gli animi dallo studio increscevole, con un altro studio più lieto. Vuole però un'antica costituzione, che donne non appariscano sui teatri loro, da che ne viene che essi scarseggiano di cose nuove.
Abbonda in oggi più che mai di peregrini talenti la venerabile Compagnia, e nelle sode dottrine non solamente, ma nella Poetica facoltà gli ozi loro impiegando, operette escono s' gentili dalle Gesuitiche penne, che invidia fanno a quant'altri in cotal genere si van provando. Nelle Tragedie e nelle Commedie ancora riescono mirabilmente, ma il farle senza le donne costar dee loro non poco di pena. Quindi è che da vari Collegi, ne' quali si leggono e compatite sono le opere mie, e si rappresenterebbono ancora, se senza le donne fossero, ricercato fui di alcuna comporne per uso loro. Resistei lungo tempo, ma non potei più farlo alle dolcissime insinuazioni del valorosissimo Padre Roberti nostro, che nei Collegi degnissimi di Bologna insegna con tanto profitto alla gioventù, e si distingue fra gli altri in ogni genere di sapere.
Assicurarmi non posso che questa tale Opera mia, a tal fine diretta, sia poi degna di essere dagli egregi Convittori rappresentata; ma se averò mancato per ragione della ignoranza mia, avrà almeno manifestato il rispettoso mio desiderio di corrispondere a chi ha per me una parzialità generosa, ed a quell'obbligo che conservo ad una sì venerabile Religione, da cui il primo latte fortunatamente ho succhiato.
Eccovi, Signor Conte umanissimo, fattovi anche depositario d'un mio sincerissimo complimento, e giudico non vi sia discaro, solendo Voi fare stima dei valent'uomini comecché a Voi somigliano, e per ciò più cari vi sono. Ma buon per me, che d'altra parte la vostra docilità non vi permette sdegnare l'amicizia di quelli ancora che meno sanno, fra' quali vi prego di collocar me medesimo, con questo però, che nel numero mi ponghiate dei più sinceri ammiratori del vostro merito, e fra quelli che più teneramente vi amano

Di voi, valorosissimo Signor Conte,

Devotiss. Obbligatiss. Servitore ed Amico vero

CARLO GOLDONI




L'AUTORE A CHI LEGGE

L'Uomo propone e Dio dispone: dicesi comunemente, ed è un'evangelica verità. Aveva io proposto di sollecitare la stampa dell'Opere mie, per terminare velocemente i quattro restanti Tomi al compimento dei dieci; ma Dio ha disposto che io cadessi malato in Bologna, e che per troppa sollecitudine di mandare ad effetto le mie proposizioni, partendo di là non bene guarito, ricadessi poi più fieramente in Modena, dove un intero mese, fra il male e la convalescenza, ho dovuto perdere miseramente. Buon per me che l'assistenza di due valorosi medici, il Signor Dottore Beraldi l'uno, l'altro il Signor Dottor Moreali, hanno conosciuto il male a principio, e con una cavata di sangue a tempo, hanno impedito che il decubito catarrale al petto producesse la fatalissima infiammazione. Se a Dio fosse piaciuto di arrestare il corso de' giorni miei, dove sarebbesi udito suonare a lutto, e dove suonare a festa; chi di bruno ammantandosi, e chi di lieto color di rosa. Tu dunque hai degli inimici, dirà taluno. E chi non sa, che ne ho pur troppo? E di quelli ne ho, che mossi non sono né da ragione, né da interesse, né da politica, né da soggezione, ma, o per effetto di antipatia, o per naturale disposizione di un animo portato all'odio. Fra quelli evvi un cartaio in Venezia, con cui non ho mai trattato, non ho mai parlato nemmeno, eppure mi perseguita quel poco che può, strapazza le Opere mie, forse perché non le ho scritte sulla carta da lui venduta, e fa ridere le brigate, dicendo male di me, senza nemmeno saperlo dire. Ma non parliamo ora di cose ridicole, ché più seriamente, Lettor carissimo, trattener mi deggio teco alcun poco. Il titolo della presente Commedia avrai osservato essere l'Impostore. Varie sono le specie degl'Impostori, dei Raggiratori, dei Furbi. Fra questi uno ne ho scelto, il di cui argomento è pur troppo vero, e tanto vero, che io medesimo interessato ne sono, e ne formo uno de' personaggi della Commedia. Hai tu in memoria, Lettor gentilissimo, aver io detto nel breve ragionamento che la seconda Commedia di questo Tomo precede, volere forse in questo Libro medesimo di certe vicende mie ragionare? Facile ti è il rileggerlo, se più non te lo rammenti; e se colà vedrai soltanto accennato un motivo che a partire dalla Patria mia in quel tempo mi indusse, ora di questo un poco più estesamente voglio informarti, mentre quello è che alla presente Commedia mia somministrò l'argomento.
Ardeva allora la guerra fra' Gallo-Ispani e Tedeschi, ed io serviva la Repubblica Serenissima di Genova, in qualità di suo Console in Venezia. Mi s'introdusse in casa, col mezzo di un Fratello mio militare, un certo tale che il titolo spacciava di Capitano, il di cui nome tacerò e la patria, per non rendere a questa e a' cittadini suoi disonore. Sfoderò costui una patente amplissima di una Potenza di Europa, in cui non mancavano né sigilli, né sottoscrizioni, riconosciute per vere da gente pratica ed esperta. Dichiaravalo questa Colonnello di un Reggimento nuovo che dovea farsi, e la facoltà ostentava di creare i suoi subalterni, e le credenziali per reclutare quei tali soldati che affettava di dover scegliere. Ogni settimana aveva egli lettere da mostrare, provenienti da quel tal Principe, sottoscritte da que' tali Ministri, che sempre sul proposito ragionavano, mettendo in vista quelle somme grandiose di denaro, che a momenti sempre dovean capitare. Mostrava l'altro carteggio co' suoi emissari sparsi qua e là per que' Paesi dove le reclute dovevan farsi, e tutti a un tratto dovevano unirsi uomini, armi, munizioni e denari. Frattanto il Signor Colonnello andava facendo cautamente le cariche del suo Reggimento. Mio Fratello doveva essere il primo Capitano, e forse forse qualche cosa di più, e la gran carica doveva conseguirla senza sborsare un soldo, poiché frattanto il Signor Colonnello mangiava alla mia tavola, e sulla fede delle gran rimesse che si aspettavano, esigeva da me di quando in quando l'occorrente per i bisogni suoi, e per quelli di qualche buona femmina sua dipendente. Io poi, a titolo di gratitudine, e per l'amore che concepito aveva verso di me, essere dovevo l'Auditore del magnifico Reggimento, con una paga di quindici zecchini il mese di certo, oltre i pingui avventizi che porta seco l'impiego.
La carica mia d'allora, onorifica al sommo, ma senza emolumento certo di sorta alcuna, mi fece porgere orecchio a chi mi offeriva miglior destino. Soggetti assai riguardevoli per nascita e per fortuna vidi, che al pari di me e forse più gli credevano.
Non ebbero altri esitanza a somministrargli somme molto maggiori per le sperate cariche militari, e Mercanti ancora, sulla fede di varie firme riconosciute, s'impegnarono per il vestiario e per altro, di che venivano ricercati. Durò per sette mesi la favola, e quando, stanchi tutti di attendere l'ultima risoluzione, doveva questa comparire a consolazione comune, disparve il Colonnello, e tutti restarono nella stessa maniera impiegati. Io aveva forse sagrificato meno degli altri, ma lo stato mio ristrettissimo, reso anche peggiore dall'impegno del posto che sostenevo, mi fece risentire più dolorosa la piaga, e disperare il modo di medicarla. Era una bella consolazione per me vedermi accompagnato da sì bel numero di gente di buona fede, ed era un bel conforto per tutti il rammentarsi l'un l'altro i sigilli, le sottoscrizioni, le firme, accordando per gloria dell'impostore, che egli era espertissimo nell'imitazione dei caratteri e delle impronte. Ciò bastava per lusingarmi di non essere stato poi tanto semplice e malaccorto, ma non serviva per rimediare ai disordini ne' quali ero incorso, e a dir la cosa come è, mi trovai rovinato, né ciò sarebbemi certamente accaduto, se avessi meglio badato agli amorosi savissimi avvertimenti di una persona che amavami veramente, e adesso pure mi ama, cui confidando sin d'allora le mie lusinghe, mi avvertì, e mi predisse quello appunto che mi accadde. Ma la necessità talora, talora l'amor proprio fa travedere; facilmente si crede ciò che si desidera, e l'impostura, quando è ben condotta, fa travedere gli uomini molto di me più accorti. In tale stato adunque, altro ripiego per me non vi era che cambiar cielo, per tentare di cambiar fortuna. Chiesi da Genova un sostituto al mio Consolato, e mi fu benignamente concesso. Passai a Rimini, ove trovavasi il Serenissimo Signor Duca di Modena, all'armata Spagnuola unito. Alimentai anche colà più mesi molte belle speranze; partì l'armata Spagnuola; la seguitai sino a Pesaro; quale accidente mi inducesse a tornare indietro, lo narrerò un'altra volta.
Ora dovrei dir qualche cosa intorno all'ordine della presente Commedia, ma questa volta faccio prima di essa il presente ragionamento, né so qual sia per riuscire. Se verrà bene, sarà l'unico frutto che avrò ritratto dal mio gentilissimo Signor Colonnello; se mi riuscirà male, sarà un motivo per maledir nuovamente il suo nome. Sono questi i primi giorni che io scrivo, dopo la malattia sofferta; la testa non è ancora tanto fortificata che basti, né posso lungamente applicare. Buon per me, che ora mi trovo in Modena, dove mi amano, dove abbondano i Letterati, e questi meco si degnano trattenersi frequentemente, e distraendomi dalla soverchia applicazione, mi fanno passare le più liete, le più profittevoli ore della mia vita.


PERSONAGGI

ORAZIO SBOCCHIA finto capitano.

...continua


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