Una burla riuscita


III

Mario aveva due vecchi amici di cui uno solo doveva rivelarsi suo acerrimo nemico.
L'amico, che doveva restar tale fino alla morte, era il suo capo ufficio, un uomo di poco più vecchio di lui, il signor Brauer. Un amico intimo perchè non si comportava da suo capo, ma veramente da collega. Tale rapporto di eguaglianza non era provenuto da amicizia istintiva o da convinzioni democratiche, ma dal lavoro stesso cui i due uomini da anni attendevano insieme, e nel quale ora l'uno ora l'altro era il superiore. Si sa che anche il più scalcinato dei letterati è capace di redigere una lettera meglio di chi mai s'intinse di letteratura. Restava superiore il Brauer finchè si trattava d'intendere un affare, ma cedeva il suo posto a Mario quando si doveva stendere sulla carta delle offerte o delle polemiche. Oramai la collaborazione s'era fatta tanto facile che i due impiegati sembravano gli organi della stessa macchina. Mario s'era abituato ad indovinare quello che il signor Brauer volesse quando gli chiedeva di scrivere una lettera in modo da far intendere una cosa senza dirla o dirla senz'impegnarsi. Il signor Brauer era sempre quasi, ma mai interamente soddisfatto, e rifaceva spesso tutta la lettera spostando le parole e le frasi di Mario che conservava immutate con un cieco rispetto. Correggendo, il signor Brauer si faceva più amabile che mai, e si scusava dicendo: "Voialtri letterati avete un modo troppo speciale di esprimervi. Non fa per gli uomini comuni che trafficano". E Mario era tanto poco offeso da tale critica che faceva del suo meglio per meritarla: cacciava nelle sue lettere più preziosità che non nelle sue favole. Poi s'affrettava a riconoscere che la lettera rifatta dal Bauer era più commerciale della sua, perchè quello era il modo più sicuro di non sentir più parlare di quella lettera che l'annoiava.
Tanti capolavori fatti in collaborazione avevano creato fra i due una dolce intimità. Ambedue riconoscevano i meriti dell'altro. Ma c'era di più: nessuno dei due invidiava la superiorità dell'altro. Per il Brauer era una grande sventura quella di essere nato scrittore, e coloro cui era toccata senza nessuna colpa una disgrazia simile, avevano diritto ad ogni protezione da parte dei compagni più fortunati. Per Mario, poi, la capacità commerciale era proprio quella che egli non aveva mai ambita.
Soltanto Mario non era molto persuaso che il Brauer meritasse un salario tanto più alto del suo. Occorse tale invidia per far nascere la favola. Dunque anche il povero Brauer si mutò in un passerotto, ma fu accompagnato nella sua metamorfosi da Mario stesso. Ai due passeri naturalmente veniva offerto del pane perchè essi esistono perchè la bontà umana possa esercitarsi a buon mercato. Il Brauer volava ad esso per la via più diritta, e perciò più bassa. Mario volava in alto ed è così che arrivava in ritardo. Ma digiunava volentieri confortato dalla bellezza della vista di cui dall'alto aveva potuto godere.
Bisogna anche dire che Mario era un ottimo impiegato e che non aveva bisogno del pungolo per fare il proprio dovere. Oltre a quelle lettere che faceva in collaborazione, a lui incombevano anche molte registrazioni ed altri lavori d'ordine inferiore che in commercio spettano di diritto ai letterati che non sanno fare altro. Anche per questi lavori fatti da Mario con grande coscienziosità, il Brauer gli era riconoscente perchè così aveva più tempo per dirigere gli affari com'era il suo desiderio ed il suo dovere. Diventava così sempre più accorto e doveva venire il momento in cui la sua scienza commerciale sarebbe stata più utile a Mario di quanto la letteratura di questo mai fosse stata di vantaggio a lui.
L'altro amico di Mario, quegli che presto doveva rivelarsi suo nemico, era un certo Enrico Gaia, commesso viaggiatore. In gioventù, per un breve periodo, aveva tentato di fare delle poesie, e s'era trovato allora associato a Mario, ma poi in lui il commesso viaggiatore aveva strangolato il poeta, mentre, nell'inerzia dell'impiego, Mario aveva continuato a vivere di letteratura, cioè di sogni e di favole.
Non è mestiere da dilettante quello del commesso viaggiatore. Prima di tutto egli passa la vita lontano dal tavolo, l'unico posto ove si possa fare e versi e prosa; ma poi il commesso viaggiatore corre, viaggia e parla, soprattutto parla fino all'esaurimento. Forse non era stato tanto difficile di sopprimere nel Gaia la letteratura. Egli era passato per quel periodo d'idealismo che talvolta preludia anche alla formazione dei negrieri, e di tale periodo non restava maggior traccia in lui che nell'insetto alato della larva. Si sarebbe potuto macinarlo tutto, eppoi analizzarlo, senza scoprire nel suo organismo una sola cellula foggiata per servire ad altro che a fare dei buoni affari. Mario, un po' ingiusto, non gli perdonava una trasformazione tanto radicale, e pensava: Quando si vede un passero in gabbia fa compassione, ma anche ira. Se si è lasciato prendere vuol dire che un poco già apparteneva alla gabbia, e se poi l'ha sopportata, è prova certa che non meritava altro destino.
Però il Gaia era apprezzatissimo quale commesso viaggiatore, e non bisogna disprezzarlo, perchè un buon commesso viaggiatore è la fortuna della propria famiglia, della ditta che lo assunse e persino della nazione in cui nacque. Tutta la sua vita aveva fatte le piccole città dell'Istria e della Dalmazia, e poteva vantarsi che quand'egli arrivava in una di quelle città, per una parte della popolazione (i suoi clienti) il ritmo monotono della vita di provincia si accelerava. Egli viaggiava accompagnato da una chiacchiera inesauribile, dall'appetito e dalla sete, insomma le tre qualità sociali per eccellenza. Adorava la burla come gli antichi toscani, ma pretendeva che la sua fosse una burla più amabile. Non v'era cittadella per cui fosse passato, dove non avesse designato lui la persona da burlare. Così i suoi clienti lo ricordavano anche quand'era partito, perchè continuavano a divertirsi sulla traccia da lui segnata.
Forse quest'amore alla burla era il residuo delle sue tendenze artistiche soppresse. È infatti un artista il burlone, una specie di caricaturista il cui lavoro non è agevolato dal fatto ch'egli non ha da lavorare, ma da inventare e mentire in modo che il burlato si faccia la caricatura da sè. Un lavoro delicato precede e accompagna la burla, e si capisce che una burla riuscita resti immortale. Vero è che se ne parla di più se la raccontò un uomo come Shakespeare, ma dicesi che anche prima di lui si parlasse molto di quella fatta da Jago.
Può anche essere che le altre burle del Gaia fossero più innocue di questa di cui qui si tratta. In Istria e in Dalmazia le burle dovevano promuovere i buoni affari. Quella ch'egli fece a Mario fu invece intinta di vero odio. Sì. Egli odiava ferocemente il suo grande amico. Non ne era forse del tutto consapevole, perchè egli era anzi convinto di non sentire altro che una viva compassione per Mario, quel disgraziato che era tanto presuntuoso, e non aveva nulla a questo mondo, cacciato com'era in un impieguccio nel quale mai avrebbe potuto progredire. Quando parlava di Mario, egli sapeva atteggiare la faccia a compassione, ma torcendo le labbra in modo da significare anche una minaccia.
Lo invidiava. Il Gaia apparteneva alla gozzoviglia come Mario apparteneva alla favola. Mario sorrideva sempre e lui rideva molto, ma con interruzioni. La favola accompagna sempre come un'ombra luminosa accanto a quella oscura gettata dal corpo, mentre la gozzoviglia, se si accompagna all'ombra, è atroce. Perchè essa è un delitto contro il proprio organismo, che è seguito immediatamente (specie ad una certa età) dal più forte dei rimorsi in confronto al quale quello di Oreste che ammazzò la propria madre, fu lievissimo. Al rimorso va sempre unito lo sforzo di mitigarlo, spiegando e scusando il delitto, magari asserendo ch'è il destino umano di commetterlo. Ma come avrebbe potuto il Gaia proclamare in buona fede che si dedicano alla gozzoviglia tutti quelli che possono, avendo sempre presente Mario?
Poi c'era quella benedetta letteratura che lavorava anch'essa ad intorbidare l'anima del Gaia, che pur ne sembrava nettato. Non si passa impunemente, e sia pure per il più breve spazio di tempo, per un sogno di gloria, senza poi rimpiangerlo per sempre, e invidiare colui che lo conserva, anche se non raggiungerà giammai la gloria. A Mario quel sogno trapelava da ogni poro della sua pelle tanto facile al rossore. Il posto che non gli era concesso nella repubblica delle lettere, egli lo pretendeva e lo occupava, quasi segretamente, ma non perciò con meno diritto o con restrizioni. Egli diceva bensì a tutti che da anni non scriveva nulla (esagerando perchè c'erano le storie degli uccelletti) ma nessuno gli credeva, e bastava questo per attribuirgli per consenso generale una vita più alta, più alta di tutto quanto lo contornava.
Meritava perciò l'invidia e l'odio. Enrico Gaia non gli risparmiava i sarcasmi e sapeva talvolta anche sopraffarlo parlandogli di afffari e di posizione economica. Ma ciò non gli bastava, perchè Mario stesso amava di ridere del proprio stato. Il Gaia avrebbe voluto strappargli il sogno felice dagli occhi a costo di acciecarlo. Quando lo vedeva entrare in caffè con quella sua aria di chi guarda le cose e le persone con l'eterna, viva, serena curiosità dello scrittore, egli diceva torvo: "Ecco il grande scrittore". E infatti Mario aveva l'aspetto e la felicità del grande scrittore.
Nelle favole il Gaia non apparve. Però un giorno Mario apprese che i piccoli uccelli sono voracissimi: in un giorno ingoiano tanta di quella roba sminuzzata che il suo complesso peserebbe quanto tutto il loro corpo. Perciò era stato tanto difficile di trovare fra i passeri uno che somigliasse al Gaia. Se tutti almeno per una loro qualità lo ricordavano. E Mario scoperse subito in tale somiglianza la contraddizione che sarebbe potuta in avvenire assurgere a favola: "Mangia come un passero ma non vola". E più tardi: "Non vola e la sua paura è proprio verde". Alludeva certo al Gaia che una sera, dopo di aver ferito un amico con una maldicenza, era dovuto fuggire dal caffè a gambe levate.

IV

Il 3 Novembre 1918, la giornata storica di Trieste, sarebbe stato veramente poco adatto alla burla.
Alle otto di sera, pregato dal fratello che dal letto anelava ad altre notizie dopo di aver avuto la relazione dello sbarco degl'italiani, Mario si recò al caffè a prendere quell'intruglio raddolcito dalla saccarina che i Triestini s'erano abituati a considerare caffè.
Dei suoi conoscenti trovò il solo Gaia, che su un sofà riposava stanco d'essere stato in piedi un paio d'ore. Mi dispiace per lui, ma bisogna confessare che il Gaia aveva realmente l'aspetto dello spirito del male. Perciò non era mica brutto. A cinquantacinqu'anni i suoi capelli bianchi avevano un candore che rifletteva la luce come se fosse stato metallico, mentre i suoi mustacchi che coprivano le sue labbra sottili erano tuttavia bruni. Era magro, non grande, e si sarebbe potuto credere agile se non si fosse tenuto un po' curvo, e se il suo corpicciuolo non fosse stato gravato dalla prominenza di una pancetta pur sproporzionata e sporgente più giù di quelle solite degli uomini che la devono all'inerzia o al solo appetito, una di quelle pancie che i tedeschi, che se ne intendono, attribuiscono all'effetto della birra. I suoi piccoli occhi neri ardevano di una malizia allegra e di presunzione. Aveva la voce roca del beone, e talvolta la urlava perchè aveva per massima che bisognava parlare un po' più forte del proprio interlocutore. Zoppicava come Mefistotele, ma, a differenza di costui, non sempre della stessa gamba, perchè il reuma lo afferrava ora a destra ed ora a sinistra.
Più vecchio di lui, Mario era tuttavia, ad onta di una canizie estesa a tutto il suo pelo, come usano a quell'età le persone serie, evidentemente biondo su tutta la faccia rosea, serena, riposata.
Il Gaia si eccitava parlando dei varii episodi cui aveva assistito nel pomeriggio. Faceva della retorica, perchè era venuto il momento di gonfiare il suo patriottismo che non era stato grande prima dell'arrivo degl'italiani. Sapeva gonfiare tutto, lui, essendo sempre pronto ad accalorarsi per qualunque cosa piacesse a coloro ch'eran o potevano divenire suoi clienti.
Echeggianti da lontano, anche le parole che disse Mario potrebbero ora essere tacciate di retorica. Ma bisogna ricordare che quel giorno era dovere della parola, specie in bocca di chi per destino non aveva agito, di essere anch'essa forte ed eroica. Mario tentò di affinarsi per essere all'altezza della situazione e, com'è naturale, ricordò di essere un letterato. La parte più fine della sua natura si destò per protendersi alla storia. Disse letteralmente: "Vorrei saper descrivere quello che oggi sento. - E, dopo una lieve esitazione: - Bisognerebbe avere una penna d'oro con cui vergare le parole su una pergamena alluminata".
Era una rinunzia, perchè fra altre molte cose, a Trieste mancavano allora penne d'oro e pergamene alluminate. Ma al Gaia parve tutt'altro, e s'arrabbiò come sanno arrabbiarsi i beoni.
Gli parve cosa enorme che il Samigli osasse anche solo menzionare la propria penna al cospetto di un avvenimento d'importanza storica. Strinse le labbra come per nascondere nella bocca un grosso insulto che vi si formava per genesi spontanea, poi riaperse il pugno, che s'era stretto da sè, mentr'egli guardava il naso roseo del letterato, ma non seppe trattenere la reazione più efficace della parola e anche del pugno, ch'era stata pensata da lungo tempo, ma che mancava ancora della maturità che le può venire dall'accuratata preparazione: La burla si scaricò sul capo del povero Mario come se si fosse trattato di un esplosivo che per caso avesse trovato il contatto col fuoco. Così il Gaia imparò che anche la burla come tutte le altre opere d'arte può essere improvvisata. Egli non credeva al suo successo e si preparava ad annullarla dopo di essersene servito a manifestare il suo disprezzo a quel presuntuoso. Poi, invece, Mario abboccò tanto bene che liberarnelo sarebbe costato uno sforzo grande. E il Gaia lasciò vivere la burla, ricordando come a Trieste vi fossero pochi divertimenti. Bisognava rifarsi di un'epoca troppo lunga di serietà.
La iniziò con veemenza: "Dimenticavo di dirtelo. Tutto si dimentica in una giornata simile. Sai chi ho visto nella folla plaudente? Il rappresentante dell'editore Westermann di Vienna. M'avvicinai a lui per seccarlo. Applaudiva anche lui che non sa una parola di italiano. E invece che risentirsi, mi parlò subito di te. Mi domandò quali impegni tu avessi col tuo editore per quel tuo vecchio romanzo Una Giovinezza. Se non erro, tu l'hai venduto quel libro?".
"Nient'affatto, - disse Mario con grande calore. - È mio, del tutto mio. Pagai le spese dell'edizine fino all'ultimo centesimo, a dall'editore non ebbi mai niente".
Parve che il commesso viaggiatore desse grande importanza a quanto apprendeva. Egli ben sapeva quale aspetto dovesse assumere un uomo quando improvvisamente vede affacciarsi la possibilità di un buon affare, perchè egli aveva almeno una volta al giorno quell'aspetto. Si raccolse e s'inarcò come se avesse voluto prendere uno slancio:
"C'è allora la possibilità di vendere quel romanzo - esclamò - Peccato ch'io non lo avessi saputo. E se ora buttano subito fuori di Trieste quel tedescone? Addio affare! Pensa ch'egli è venuto a Trieste proprio per trattare con te".
Mario era indignato, e bisogna constatare con un po' di sorpresa che l'indignazione fu il primo suo sentimento all'annunzio dell'inaspettato successo, mentre non aveva mai conosciuto l'indignazione nei lunghi anni di vana attesa. Come aveva potuto credere il Gaia che il romanzo non fosse più suo? Chi mai in quegli anni aveva domandato di acquistarlo? E fu oppresso da un'ira ch'era insopportabile, perchè subito intese che non doveva rivelarla. Egli era ora tutto nelle mani del Gaia e vedeva che non doveva offenderlo. Ma con dolore pensò che si trovava nelle mani di persona che con la sua leggerezza minacciava di rovinarlo.
Bisognava ricordare come il mondo apparisse sconvolto e disordinato in quei giorni. Se il rappresentante dell'editore era sparito nella folla, e non ci pensava lui stesso a riapparire, convinto com'era che l'affare di cui era incaricato fosse già stato fatto da altri, sarebbe stato impossibile rintracciarlo. Non c'era mai stata a questo mondo una folla simile a quella che si muoveva allora fra Triste e Vienna, attaccata agli scarsi treni ferroviari, o in forma d'ininterrotta fiumana, a piedi, sulle vie maestre, composta dall'esercito in fuga e da borghesi emigranti o rimpatrianti, tutti anonimi, ignoti come schiere di bestie cacciate dall'incendio o dalla fame.
Non dubitò un istante della perfetta verità delle comunicazioni del Gaia. Doveva essere più disposto alla credulità in seguito a quel successo di ogni sera del suo romanzo nella stanza del fratello. E quando, molto tempo dopo, seppe della trama ordita ai suoi danni, per scusare verso se stesso la propria dabbenaggine, propose la favola in cui si racconta che molti uccelli perirono perchè sullo stesso posto s'annidarono due uomini di cui uno buono e generoso, e l'altro malvagio. Su quel posto, per lungo tempo, ci fu il pane del primo, in ultimo la pania dell'altro. Proprio com'è insegnato in un libercolo in cui s'insegna scientificamente l'insidia agli alati e che qui naturalmente non si nomina.
Il Gaia sfruttò meravigliosamente lo stato d'animo di Mario, che gli si rivelò intero. Ebbe il solo torto di credersi molto astuto. Non lo era più di un cacciatore comunissimo che conosca le abitudini della propria preda. Forse esagerò l'astuzia. Prima di mettersi a correre in cerca della persona tanto importante, che forse stava allontanandosi da Trieste, egli esigette da Mario una dichiarazione scritta con la quale gli veniva assicurata una provvigione del cinque per cento. Mario trovò la proposta equa, ma visto che bisognava attendere che il lento cameriere procurasse la penna e la carta, propose che il Gaia, per non perdere tempo, se ne andasse subito, mentre lui avrebbe stesa la dichiarazione e gliel'avrebbe consegnata il giorno dopo. Ma il Gaia non volle. Per andare sicuri gli affari non si potevano trattare che in un modo solo. E con tutta cura fu redatta la dichiarazione con cui Mario impegnava sè e gli eredi a versare al Gaia la provvigione su qualunque importo che ora od in avvenire gli fosse pagato dall'editore Westermann. Alla dichiarazione, Mario, di propria iniziativa, aggiunse un'espressione di gratitudine che non era altro che una falsità, perchè gli era stata suggerita dal suo desiderio di celare due suoi rancori, di cui il primo, fortissimo, per la leggerezza con cui il Gaia aveva compromesso i suoi interessi, ed il secondo - molto meno forte - per la sfiducia che gli aveva dimostrata esigendo prontamente quella dichiarazione.
Poi il Gaia ebbe anche lui fretta, e corse via non vedendo l'ora di poter ridere liberamente. Mario sarebbe corso volentieri con lui per abbreviare la propria ansietà, ma il Gaia non volle. Prima doveva ripassare nel proprio ufficio, poi correre da un cliente dal quale forse avrebbe potuto sapere l'indirizzo del tedesco, e infine si sarebbe recato in un certo luogo ove sicuramente il casto Mario non avrebbe accettato di seguirlo, e dove sicuramente si trovava il tedesco, se era ancora a Trieste.
Prima di abbandonarlo, volle rasserenare Mario e provargli che il proprio errore non aveva una grande importanza. Ora che ci pensava - dichiarò - ricordava che il rappresentante di Westermann era nato bensì di famiglia tedesca, ma in Istria. Perciò sarebbe divenuto cittadino italiano per nascita, e non si poteva espellere.
Questo fu l'unico atto suo che provasse la sua qualità di burlone accorto. Non gli era sfuggito il grande rancore di Mario, e trovava che non era quella l'ora di provocarlo.
Perciò quando Mario uscì dal caffè, si trovò nella notte oscura in pieno e sicuro successo. Non sarebbe stato così se ancora avesse potuto temere che il tedesco fosse stato costretto ad abbandonare Trieste. Egli respirò profondamente, e gli sembrò che mai in vita sua avesse avuto di quell'aria. Tentò di sedare la grande agitazione che lo affannava e si sforzò di considerare quell'avventura come cosa nient'affatto straordinaria. Semplicemente la meritava e gli accadeva, ciò ch'era la cosa più naturale di questo mondo. Era straordinario non gli fosse accaduta prima. Tutta la storia della letteratura era zeppa di uomini celebri, e non già dalla nascita. A un dato momento era capitato da loro il critico veramente importante (barba bianca, fronte alta, occhi penetranti) oppure l'uomo d'affari accorto, un Gaia reso più importante da qualche tratto del Brauer ch'era troppo pesante per l'abitudine alla dipendenza, e non poteva perciò impersonare un creatore d'affari, ed essi subito assurgevano alla fama. Perchè la fama arrivi, infatti, non basta che lo scrittore la meriti. Occorre il concorso di uno o più altri voleri che influiscano sugl'inerti, quelli che poi leggono le cose che i primi hanno scelto. Una cosa un po' ridicola, ma che non si può mutare. E succede anche che il critico non capisca nulla del mestiere altrui, e l'editore (l'uomo d'affari) nulla del proprio, e l'esito resti il medesimo. Quando i due s'associano, l'autore anche se non lo merita, è fatto per un tempo più o meno lungo.
Era fine assai Mario a vedere le cose a quel modo, in quel momento. Meno fine quando aggiunse con tranquillità: "Meno male che il caso mio è diverso".
Perchè non era venuto da lui il critico invece dell'uomo d'affari? Si consolò pensando che certo il Westermann era stato indotto a quell'affare dal critico. E finchè durò la burla, egli sognò di tale critico, ne costruì l'aspetto e l'indole, attribuendogli tante di quelle virtù e tanti di quei difetti da farne una persone più grossa delle solite viventi. Sicuramente era un critico cui non importava affatto della propria persona, e non era affatto come gli altri critici che quando leggono gettano su ogni pagina l'ombra del proprio naso torbido. Egli non cianciava, ma agiva, ciò ch'era molto strano per un uomo la cui sola azione consisteva in un giudizio sulla forza della parola altrui. Era più sicuro dei soliti critici, perchè non era soggetto che ad un errore solo (piuttosto grosso) e non a tanti da riempirne varie colonnine di giornale. Una potenza! L'anima estetica del Westermann, il suo occhio che mai si chiudeva, perchè altrimenti all'editore poteva toccar di pagare per vere delle pietre false, come Mario, che non se ne intendeva, supponeva potesse succedere ai gioiellieri. E freddo, freddo: come una macchina che non conosce che un solo movimento. In mano sua l'opera acquistava tutto il suo valore e non di più, e diveniva inerte come una merce che passa per le mani di un intermediario, e non vi lascia altro che un beneficio in denaro. Non conquideva, ma era afferrata, pesata e misurata, consegnata ad altri e dimenticata, perchè non intralciasse l'opera della macchina subito rimessa in moto. Dopo letto il romanzo del Samigli, il critico era andato dal Westermann e gli aveva detto: "Ecco l'opera che fa per voi. Vi consiglio di telegrafare subito al vostro rappresentante di Trieste d'acquistarla a qualunque prezzo". Così il suo compito era esaurito. Che cosa gli sarebbe costato d'inviare al Samigli una cartolina postale per dirgli la parola intelligente ch'egli solo era capace di formulare? Così, proprio così era fatto il miglior critico del mondo. E pensare che valeva la pena di scrivere, solo perchè a questo mondo esisteva un mostro simile!
Si può dire perciò che la burla del Gaia minacciava di farsi importantissima, perchè subito all'inizio falsava l'aspetto del mondo. E quando Mario dovette ricredersi, se la prese in una favola proprio col critico ch'egli aveva creato, e l'unico critico ch'egli avesse amato. Ad un passerotto famelico avvenne di trovare un giorno molte briciole di pane. Credette di doverle alla generosità del più grosso animale che avesse mai visto, un pesante bove che pascolava su un campo vicino. Poi il bove fu macellato, il pane sparì, e il passerotto pianse il suo benefattore.
Vero esempio d'odio tale favola. Far di se stesso una bestia cieca e sciocca come quel passerotto pur di poter fare una grossissima bestia anche del critico.
Tanto grande riteneva Mario il suo successo che prese una decisione che pur doveva attenuare l'effetto della burla. Per il momento non bisognava dire a nessuno della buona fortuna toccatagli. Quando il suo libro fosse stato pubblicato in tedesco, la meraviglia in città e in tutta la nazione sarebbe stata maggiore se inaspettata. A lui che aveva atteso il successo per tanti anni, non doveva essere grave di restarne privo qualche tempo ancora.
Il fratello, già coricato, cominciò con l'enunciare un dubbio sulla verità della comunicazione del Gaia, ma così, quasi macchinalmente, quel dubbio da cui si è colti ad ogni notizia sorprendente. Però subito, volonteroso, lo eliminò persino dall'intimo dell'animo suo, visto che poteva diminuire la gioia del fratello. Non conosceva il Gaia e perciò quel dubbio mancava di ogni base. Di sotto al berretto da notte, i suoi occhi vividi partecipavano a tanta gioia. Le cose nuove lo turbavano e non pensava gli dessero salute, ma la gioia di Mario doveva essere anche la sua. Intera, quantunque, quando Mario parlò della loro futura ricchezza, egli non ne vide l'importanza. Più caldo di così il suo letto non sarebbe stato, e sarebbero aumentate le tentazioni dei cibi più ricchi che minacciavano la sua salute.
Per lui già la prima serata fu molto meno gradevole delle solite. Ecco che rifattosi vivo, il romanzo provocava la critica inquietante di Mario. Ad ogni tratto il lettore s'interrompeva per domandare: "Non sarebbe meglio dire altrimenti?". E proponeva nuove parole, esigendo che il povero Giulio l'aiutasse a decidere. Niente di violento ma abbastanza per togliere alla lettura il suo carattere di ninna nanna. Per rispondere alle domande di Mario, Giulio due o tre volte spalancò gli occhioni spaventati quasi volesse dimostrare di ascoltar le parole che gli erano rivolte. poi ebbe una trovata che per quella sera protesse il suo sonno: "A me sembra, - mormorò - che non si debba mutare nulla a una cosa che come sta raggiunse il successo. Se la muti, forse il Westermann non la vorrà più".
Questa trovata valeva quell'altra che aveva protetto il suo sonno per tanti anni. Per quella sera servì perfettamente. Mario abbandonò la stanza, ma fu meno attento del solito, e sbattè la porta in modo che il povero malato diede un balzo.
A Mario pareva che Giulio non lo assistesse come avrebbe dovuto. Ecco che lo lasciava solo con quel successo campato in aria, inquietante più che una minaccia. Andò a letto, ma l'intontimento che precede il sonno fu quella sera terribile. Vedeva il suo successo impersonato dal rappresentante di Westermann, trascinato lontano, lontano, verso il settentrione, e ucciso dalla folla armata e imbestialita. Che ansia! Egli dovette riaccendere il lume per ricordare che morto il rappresentante suo, restava il Westermann che non era altri che una società per azioni non esposta a morte fisica.
Fatta la luce, Mario cercò la favola. Credette di trovarla nel rimprovero ch'egli si faceva di non saper godere tranquillamente della promessa di tanta buona fortuna. Diceva ai passeri: "Voi che non provvedete affatto per l'avvenire, dell'avvenire certo nulla sapete. E come fate ad essere lieti se nulla aspettate?". Infatti egli credeva di non saper dormire dalla troppa gioia. Ma gli uccelletti erano meglio informati: "Noi siamo il presente, - dissero - e tu che vivi per l'avvenire, sei tu forse più lieto?". Mario confessò di aver sbagliata la domanda, e si propose di rifare in tempi migliori una favola che dimostrasse la sua superiorità sugli uccellini. Con una favola si può arrivare dove si vuole quando si sa volere.
Il Brauer, cui Mario il giorno dopo raccontò la sua avventura, fu sorpreso, ma non eccessivamente: sapeva anche di altre merci che acquistavano da un momento all'altro del valore dopo di essere state spregiate non per soli quarant'anni, ma per varî secoli. Di letteratura se ne intendeva poco, ma sapeva che talvolta, benchè raramente, veniva retribuita. Ebbe una paura: "Se tu fai fortuna con le belle lettere, finirai con l'abbandonare quest'ufficio".

...continua


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