La mosca

- Ma come, a piedi? - urlò il dottore. - Dieci miglia a piedi? Voi siete pazzi! La mula! Voglio la mula. L'avete portata?
- Corro subito a prenderla, - s'affrettò a rispondere il Tortorici. - Me la faccio prestare.
- E io allora, - disse Neli, il minore, - nel frattempo, scappo a farmi la barba.
Il dottore si voltò a guardarlo, come se lo volesse mangiar con gli occhi.
- È domenica, signorino, - si scusò Neli, sorridendo, smarrito. - Sono fidanzato.
- Ah, fidanzato sei? - sghignò allora il medico, fuori di sé. - E pigliati questa, allora!
Gli mise, cosí dicendo, sulle braccia la figlia malata; poi prese a uno a uno gli altri piccini che gli s'erano affollati attorno e glieli spinse di furia fra le gambe: - E quest'altro! e quest'altro! e quest'altro! e quest'altro! Bestia! bestia! bestia!
Gli voltò le spalle, fece per andarsene, ma tornò indietro, si riprese la malatuccia e gridò ai due:
- Andate via! La mula! Vengo subito.
Neli Tortorici tornò a sorridere, scendendo la scala, dietro al fratello. Aveva vent'anni, lui; la fidanzata, Luzza, sedici: una rosa! Sette figliuoli? Ma pochi! Dodici, ne voleva. E a mantenerli, si sarebbe ajutato con quel pajo di braccia sole, ma buone, che Dio gli aveva dato. Allegramente, sempre. Lavorare e cantare, tutto a regola d'arte. Non per nulla lo chiamavano Liolà, il poeta. E sentendosi amato da tutti per la sua bontà servizievole e il buon umore costante, sorrideva finanche all'aria che respirava. Il sole non era ancora riuscito a cuocergli la pelle, a inaridirgli il bel biondo dorato dei capelli riccioluti che tante donne gli avrebbero invidiato; tante donne che arrossivano, turbate, se egli le guardava in un certo modo, con quegli occhi chiari, vivi vivi.
Piú che del caso del cugino Zarú quel giorno, egli era afflitto in fondo del broncio che gli avrebbe tenuto la sua Luzza, che da sei giorni sospirava quella domenica per stare un po' con lui. Ma poteva, in coscienza, esimersi da quella carità di cristiano? Povero Giurlannu! Era fidanzato anche lui. Che guajo, cosí all'improvviso! Abbacchiava le mandorle, laggiú, nella tenuta del Lopes, a Montelusa. La mattina avanti, sabato, il tempo s'era messo all'acqua; ma non pareva ci fosse pericolo di pioggia imminente. Verso mezzogiorno, però, il Lopes dice: - In un'ora Dio lavora; non vorrei, figliuoli, che le mandorle mi rimanessero per terra, sotto la pioggia. - E aveva comandato alle donne che stavano a raccogliere, di andar su, nel magazzino, a smallare. - Voi, - dice, rivolto agli uomini che abbacchiavano (e c'erano anche loro, Neli e Saro Tortorici) - voi, se volete, andate anche su, con le donne a smallare. - Giurlannu Zarú: - Pronto, - dice, - ma la giornata mi corre col mio salario, di venticinque soldi? - No, mezza giornata, - dice il Lopes, - te la conto col tuo salario; il resto, a mezza lira, come le donne. - Soperchieria! Perché, mancava forse per gli uomini di lavorare e di guadagnarsi la giornata intera? Non pioveva; né piovve difatti per tutta la giornata, né la notte. - Mezza lira, come le donne? - dice Giurlannu Zarú. - Io porto calzoni. Mi paghi la mezza giornata in ragione di venticinque soldi, e vado via.
Non se n'andò: rimase ad aspettare fino a sera i cugini che s'erano contentati di smallare, a mezza lira, con le donne. A un certo punto, però, stanco di stare in ozio a guardare, s'era recato in una stalla lí vicino per buttarsi a dormire, raccomandando alla ciurma di svegliarlo quando sarebbe venuta l'ora d'andar via.
S'abbacchiava da un giorno e mezzo, e le mandorle raccolte erano poche. Le donne proposero di smallarle tutte quella sera stessa, lavorando fino a tardi e rimanendo a dormire lí il resto della notte, per risalire al paese la mattina dopo, levandosi al bujo. Cosí fecero. Il Lopes portò fave cotte e due fiaschi di vino. A mezzanotte, finito di smallare, si buttarono tutti, uomini e donne, a dormire al sereno su l'aja, dove la paglia rimasta era bagnata dall'umido, come se veramente fosse piovuto.
- Liolà, canta!
E lui, Neli, s'era messo a cantare all'improvviso. La luna entrava e usciva di tra un fitto intrico di nuvolette bianche e nere; e la luna era la faccia tonda della sua Luzza che sorrideva e s'oscurava alle vicende ora tristi e ora liete dell'amore. Giurlannu Zarú era rimasto nella stalla. Prima dell'alba, Saro si era recato a svegliarlo e lo aveva trovato lí, gonfio e nero, con un febbrone da cavallo.
Questo raccontò Neli Tortorici, là dal barbiere, il quale, a un certo punto distraendosi, lo incicciò col rasojo. Una feritina, presso il mento, che non pareva nemmeno, via! Neli non ebbe neanche il tempo di risentirsene, perché alla porta del barbiere s'era affacciata Luzza con la madre e Mita Lumía, la povera fidanzata di Giurlannu Zarú, che gridava e piangeva, disperata.
Ci volle del bello e del buono per fare intendere a quella poveretta che non poteva andare fino a Montelusa, a vedere il fidanzato: lo avrebbe veduto prima di sera, appena lo avrebbero portato su, alla meglio. Sopravvenne Saro, sbraitando che il medico era già a cavallo e non voleva piú aspettare. Neli si tirò Luzza in disparte e la pregò che avesse pazienza: sarebbe ritornato prima di sera e le avrebbe raccontato tante belle cose.
Belle cose, difatti, sono anche queste, per due fidanzati che se le dicono stringendosi le mani e guardandosi negli occhi.

Stradaccia scellerata! Certi precipizi, che al dottor Lopiccolo facevano vedere la morte con gli occhi, non ostante che Saro di qua, Neli di là reggessero la mula per la capezza.
Dall'alto si scorgeva tutta la vasta campagna, a pianure e convalli; coltivata a biade, a oliveti, a mandorleti; gialla ora di stoppie e qua e là chiazzata di nero dai fuochi della debbiatura; in fondo, si scorgeva il mare, d'un aspro azzurro. Gelsi, carrubi, cipressi, olivi serbavano il loro vario verde, perenne; le corone dei mandorli s'erano già diradate.
Tutt'intorno, nell'ampio giro dell'orizzonte, c'era come un velo di vento. Ma la calura era estenuante; il sole spaccava le pietre. Arrivava or sí or no, di là dalle siepi polverose di fichidindia, qualche strillo di calandra o la risata d'una gazza, che faceva drizzar le orecchie alla mula del dottore.
- Mula mala! mula mala! - si lamentava questi allora.
Per non perdere di vista quelle orecchie, non avvertiva neppure al sole che aveva davanti agli occhi, e lasciava l'ombrellaccio aperto foderato di verde, appoggiato su l'omero.
- Vossignoria non abbia paura, ci siamo qua noi, - lo esortavano i fratelli Tortorici.
Paura, veramente il dottore non avrebbe dovuto averne. Ma diceva per i figliuoli. Se la doveva guardare per quei sette disgraziati, la pelle.
Per distrarlo, i Tortorici si misero a parlargli della mal'annata: scarso il frumento, scarso l'orzo, scarse le fave; per i mandorli, si sapeva: non raffermano sempre: carichi un anno e l'altro no; e delle ulive non parlavano: la nebbia le aveva imbozzacchite sul crescere; né c'era da rifarsi con la vendemmia, ché tutti i vigneti della contrada erano presi dal male.
- Bella consolazione! - andava dicendo ogni tanto il dottore, dimenando la testa.
In capo a due ore di cammino, tutti i discorsi furono esauriti. Lo stradone correva diritto per un lungo tratto, e su lo strato alto di polvere bianchiccia si misero a conversare adesso i quattro zoccoli della mula e gli scarponi imbullettati dei due contadini. Liolà, a un certo punto, si diede a canticchiare, svogliato, a mezza voce; smise presto. Non s'incontrava anima viva, poiché tutti i contadini, di domenica, erano su al paese, chi per la messa, chi per le spese, chi per sollievo. Forse laggiú, a Montelusa, non era rimasto nessuno accanto a Giurlannu Zarú, che moriva solo, seppure era vivo ancora.
Solo, difatti, lo trovarono, nella stallaccia intanfata, steso sul murello, come Saro e Neli Tortorici lo avevano lasciato: livido, enorme, irriconoscibile.
Rantolava.
Dalla finestra ferrata, presso la mangiatoja, entrava il sole a percuotergli la faccia che non pareva piú umana: il naso, nel gonfiore, sparito; le labbra, nere e orribilmente tumefatte. E il rantolo usciva da quelle labbra, esasperato, come un ringhio. Tra i capelli ricci da moro una festuca di paglia splendeva nel sole.
I tre si fermarono un tratto a guardarlo, sgomenti e come trattenuti dall'orrore di quella vista. La mula scalpitò, sbruffando, su l'acciottolato della stalla. Allora Saro Tortorici si accostò al moribondo e lo chiamò amorosamente:
- Giurlà, Giurlà, c'è il dottore.
Neli andò a legar la mula alla mangiatoja, presso alla quale, sul muro, era come l'ombra di un'altra bestia, l'orma dell'asino che abitava in quella stalla e vi s'era stampato a forza di stropicciarsi.
Giurlannu Zarú, a un nuovo richiamo, smise di rantolare; si provò ad aprir gli occhi insanguati, anneriti, pieni di paura; aprí la bocca orrenda e gemette, com'arso dentro:
- Muojo!
- No, no, - s'affrettò a dirgli Saro, angosciato. - C'è qua il medico. L'abbiamo condotto noi; lo vedi?
- Portatemi al paese! - pregò il Zarú, e con affanno, senza potere accostar le labbra: - Oh mamma mia!
- Sí, ecco, c'è qua la mula! - rispose subito Saro.
- Ma anche in braccio, Giurlà, ti ci porto io! - disse Neli, accorrendo e chinandosi su lui. - Non t'avvilire!
Giurlannu Zarú si voltò alla voce di Neli, lo guatò con quegli occhi insanguati come se in prima non lo riconoscesse, poi mosse un braccio e lo prese per la cintola.
- Tu, bello? Tu?
- Io, sí, coraggio! Piangi? Non piangere, Giurlà, non piangere. È nulla!
E gli posò una mano sul petto che sussultava dai singhiozzi che non potevano rompergli dalla gola. Soffocato, a un certo punto il Zarú scosse il capo rabbiosamente, poi alzò la mano, prese Neli per la nuca e l'attirò a sé:
- Insieme, noi, dovevamo sposare...
- E insieme sposeremo, non dubitare! - disse Neli, levandogli la mano che gli s'era avvinghiata alla nuca.
Intanto il medico osservava il moribondo. Era chiaro: un caso di carbonchio.
- Dite un po', non vi ricordate di qualche insetto che v'abbia pinzato?
- No, - fece col capo il Zarú.
- Insetto? - domandò Saro.

...continua


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