Giap

Questo libro propone una parte del materiale redatto dal collettivo Wu Ming nel corso degli ultimi tre anni. Si tratta in prevalenza, anche se non esclusivamente, di brani selezionati da "Giap", la rivista telematica dell'atelier, nata nei primi giorni del gennaio 2000. Ideata come bollettino virtuale a sostegno della nuova campagna di letteratura-guerriglia, "Giap" eccedette ben presto la funzione di strumento informativo e si ridefinì come vettore di socializzazione stilistica. Potente amplificatore di tecniche, pratiche e moduli di intervento sui linguaggi.
Il coro, emerso dalla progressiva aggregazione dei giapsters, è amministrato con estrema cura, mediante un criterio che coniuga agilità della comunicazione e qualità degli interventi. Una pratica più affine alla buona attività redazionale su carta che alla presunta orizzontalità comunicativa di molte mailing-list, anche di movimento, ridotte, troppo spesso, a ingestibili sfogatoi. Rilievi stilistici, libere interpretazioni, contestazioni, apprezzamenti, aperte prese di posizione costituiscono il prezioso patrimonio portato in dote dai giapster. Niente è stato posto al riparo da un intensissimo feedback sulla forma e la sostanza della scrittura, e su niente l'autore Senza nome ha fatto valere un giudizio insindacabile.
Molte parole sono state spese, e un rilevante deposito di riflessioni, resoconti, reportage, risposte a domande e ulteriori domande che aspettano risposte, è andato costituendosi. Proporne una selezione significa rimettersi in marcia sulla via del racconto. Consapevoli che la scelta di un criterio non può fare a meno di implicare approcci e obiettivi particolari e che di criteri se ne possono trovare tanti. Tutti legittimi, tutti determinanti, tutti perfettamente complementari(5). La narrazione risultante assume con serenità e sostiene con convinzione l'usura subita dagli abituali attori del palcoscenico letterario, presupponendo che il ruolo dell'Autore, il mistero della creazione artistica e la lettura, devota e trasognata, hanno perso fascino e sensualità.
L'anonimato, il cui valore metaforico chiede di essere misurato rispetto a un discorso complessivo, non pesato sulla bilancia truccata di coerenze cialtronesche e parolaie, si rende condizione ideale al fine di narrare le vicissitudini di un Io multiplo, industrioso e quadrofenico, per dirla con gli indimenticabili Who. Anonimato che riflette l'indefinibile e sfuggente essenza dei miti, della fantasia popolare, del tribalismo sottoculturale metropolitano, delle saghe pop, del lavoro intellettuale massificato. Possiamo aggiungere del movimento di resistenza alla globalizzazione dei capitali, esploso nel 1999 con la battaglia di Seattle. Nelle pagine che seguono è possibile ricostruire fedelmente la partecipazione del collettivo Wu Ming al movimento dei movimenti. Intima adesione che va rintracciata in uno sforzo costante volto alla produzione di miti di emancipazione, eroiche cronache di lotta e archetipiche immagini di ribellione. Mentre l'intellighenzia affoga nell'oceano dell'intellettualità di massa e il genio dell'Artista si dilegua nel competente sapere dell'artigiano, si torna tutti a bottega... per copiare, assemblare, perfezionare, restaurare, ritoccare. Ogni tanto anche per contraffare impunemente. E proprio nelle vesti di abili artigiani gli scrittori senza nome hanno contribuito a incrementare il repertorio mitologico dell'opposizione globale.

Dagli Stati Uniti all'Europa, dal Chiapas all'incendio di Genova, dallo Zocalo di Città del Messico a piazza San Venceslao, registriamo un'impressionante formulazione di simboli: Seattle, dove tutto è cominciato, e il seguito delle nuove Brigate Internazionali mobilitate contro vertici e summit; il passamontagna zapatista e gli apologhi del Subcomandante Insurgente Marcos, scanditi dalla consueta anafora dice Durito; la tuta bianca e un altro mondo è possibile; la fotografia di un ragazzo, ucciso dai carabinieri in un rovente pomeriggio d'estate, e piazza Carlo Giuliani. Robuste campagne di comunicazione hanno introdotto, amplificato e sviluppato le manifestazioni del movimento, consegnando l'intrapresa politica all'epoca della sua matura riproducibilità simbolica. Qualcosa di molto importante e di molto diverso dall'ordinaria e noiosa propaganda.
In occasione della Marcia della dignità indigena, nel marzo 2001, Marcos produce un'accurata favola allegorica, incentrata sul valore magico e taumaturgico del numero sette: vengono fornite sette chiavi interpretative in sette comunicati, gira sette volte intorno alla montagna, bagnati sette volte nel fiume. "La settima chiave siete voi" grida Marcos, il 12 marzo, a un milione di persone raccolte nella piazza principale di Città del Messico.
"Voi G8, noi 6 miliardi" era lo slogan delle giornate genovesi, rilanciato iconograficamente grazie all'immagine che ritrae l'accerchiamento di otto uomini stilizzati. E nessun conflitto sarà combattuto nel nome di quanti hanno attraversato le città di Firenze e Roma durante le più imponenti manifestazioni che mai si siano viste sotto i cieli d'Occidente. Not in our name.
I membri del collettivo Wu Ming hanno partecipato a molti degli eventi menzionati, vivendoli sulla loro pelle e narrandoli successivamente. Il racconto che segue è, prima di ogni altra cosa, la storia di questi fatti. La storia di un viaggio intorno al mondo, che comincia a Praga, il 24 settembre del 2000, per l'assedio al vertice del Fondo monetario internazionale, e arriva in piazza San Giovanni a Roma, il 15 febbraio 2003. Ma la storia è lunga, come il cammino, del resto. E c'è il tempo, in una gelida notte di fine inverno, di incontrare il Subcomandante Marcos nei pressi di un caseggiato del paesino di Nurio. In Messico. Che cosa avranno da dirsi un romanziere senza nome giunto dall'Italia e l'emblema del riscatto indigeno?
Seguendo il filo del racconto ci si bagna nel Mediterraneo, attraversando, in un'estate cocente, le strade di Genova. Ma non è un bel vedere. In via Tolemaide si respira il fumo acre dei lacrimogeni, e poco più in là, in piazza Alimonda, risuonano i colpi delle pistole d'ordinanza.
I registri della narrazione si alternano freneticamente, seguendo il ritmo sincopato di un improvvisare insistente. Variazione virtuosa che dimezza il tempo, non risparmiando alcuna ottava. A cominciare dalla più bassa, quella che suona la grottesca brutalità esibita dalla polizia israeliana nei confronti di un gruppo di pacifisti italiani. Era la mattina del 4 aprile del 2002. Aeroporto di Tel Aviv. A Ramallah, intanto, gli obiettivi telescopici dei cecchini inquadravano corpi inermi...
Poi il discorso sale repentinamente di tono. Fino a lambire le inevitabili note di una poetica sollevazione.
Dalla rabbia alla vittoria. Dalla paura al delirio. Dall'angoscia al tripudio...

Per quanto incisivo possa risultare il linguaggio, utilizzato in un'accezione strettamente descrittiva, emergono, al di là dell'opposizione fabbrichista tra teoria e prassi, nuove modalità di impiego. La lingua della letteratura si fa strumento di intervento politico, grimaldello che scardina le motivazioni e le vedute più scontate.
Le rocambolesche avventure del protagonista di Q, dell'eretico chiamato Gert dal Pozzo, Tiziano l'Anabattista e chissà in quale altro modo - i nomi, lo sappiamo bene, possono s-fuggire - si offrono come specchio sul quale osservare i riflessi cinquecenteschi della tarda modernità: la centralità della comunicazione, il lento dissolvimento dell'identità innanzi al sopraggiungere delle moltitudini, la genesi del capitale finanziario, l'importanza di rappresentazioni allusive. Le metafore aggrediscono la Storia. Curvano circolarmente il tempo, introducendo significative variazioni(6).
Questo dispositivo di intervento è efficacemente illustrato dall'apporto che il collettivo Wu Ming ha offerto per l'allestimento della contestazione genovese.
Nella primavera del 2001, una mobilitazione inattesa scuote il Paese e "Giap" fa la sua parte. Sul numero dedicato al lancio dell'appuntamento, una singolarissima Internazionale di ribelli e guerriglieri, di agitatori e sediziosi, prende parola contro il collegio cardinalizio degli arcipotenti della Terra. Pubblichiamo i loro interventi, ma ci teniamo a chiarire che a questa temibile associazione sovversiva erano affiliati Gert dal Pozzo, il generale Giuseppe Garibaldi e Vitaliano Ravagli.
I protagonisti di due romanzi balzano fuori dalle pagine che ne eternano le gesta. Con una piccola e insignificante differenza: il primo è un personaggio di pura fantasia, nel senso che dà corpo alle millenarie fantasie dell'estro popolare; il secondo, registrato all'anagrafe come Ravagli Vitaliano, abita dalle parti di Imola ed è una persona in carne e ossa, nel senso che può capitare di incontrarlo per strada.
Nei primi anni Cinquanta, Vitaliano decide di partecipare ad una spedizione nel Sudest asiatico, e nel profondo della selva laotiana aderisce, anima e corpo, alla guerriglia combattuta dalle popolazioni indocinesi contro i colonialisti occidentali. Asce di guerra è la sua storia. Un altro capitolo di quel racconto cui parteciperanno, sul versante vietnamita, Ho Chi Min e Vô Nguyen Giap. Come tomahawk disseppelliti dal centro dell'accampamento, le storie riemergono. Si intrecciano. Verità e artificio si confondono. Accadeva anche nelle azioni di Luther Blissett e questo è il terzo déjà vu che si presenta in poche pagine.
È interessante notare come il dibattito a proposito dei temi sollevati durante le presentazioni di Asce di guerra abbia assunto su "Giap" i connotati di una riflessione polifonica intorno ai modi della politica. Che cosa esprime la singolare biografia di Ravagli? Una celebrazione della militanza novecentesca? Un enfatico recupero del fango e dell'acciaio del comunismo di guerra? Oppure la legittima ed estrema adesione di un uomo ai propri ideali? La querelle, di cui diamo ampiamente conto nelle pagine che seguono, viene dibattuta, tra il febbraio e il marzo del 2001, con una veemenza di toni e un'articolazione di contenuti, che giustificano pienamente la fortunata espressione, coniata da Paco Ignacio Taibo II e adattata alla comunità giapster, di Repubblica democratica dei lettori.

In un contagioso e imprevedibile gioco sul tempo, i personaggi della galassia narrativa del collettivo Wu Ming sono stati assunti come prospettive archetipiche, come maschere in grado di viaggiare attraverso le epoche e di superare le labili frontiere tra fiction e realtà. Dalle colonne virtuali di "Giap" la voce di Gert si era diffusa nel continuum per incitare gli indecisi della selva Europa. Al suo avversario, al Rochefort del cardinale Carafa, toccava il medesimo destino. Come accade in certi plot fantascientifici, in cui il buono e il cattivo sono trasportati in un'età differente da quella iniziale e lì continuano l'antico scontro, così Q segue Gert nel pellegrinaggio attraverso il tempo. All'alba del terzo millennio le scelte non cambiano. L'Eretico si schiera a fianco del movimento, la Spia diventa segugio dei moderni inquisitori. Ieri con il Vaticano, al servizio di un cardinale. Oggi con il Fmi, il Wto, la Banca Mondiale, al servizio dei padroni.
Col nome di Qoèlet, divenuto una sigla multipla, vengono firmati, nel giro di un paio di mesi, due testi anomali. Il primo, diffuso nel forum tutebianche.org poi ripreso su "Giap", è inoltrato a ridosso del G8. Il secondo, pubblicato su un settimanale emiliano, viene redatto pochi giorni dopo i tragici eventi genovesi. Entrambi gli scritti chiariscono con indubbia efficacia, attraverso il punto di vista del confidente per eccellenza, della Spia, dell'Infiltrato, i dispositivi di costruzione dei nemici dello stato(7), le tattiche di controllo preventivo dei conflitti sociali e le linee guida della repressione. Estensione delle originarie finalità interne al testo, forza di una narrativa capace di accordare robustezza degli intrecci e collettivizzazione dei mezzi di espressione.
Le cose si ripresentano e non è sempre detto che ciò avvenga nelle forme della farsa. John Mallory, il dinamitardo di Giù la testa, ne sa qualcosa. Sulle note di un popolare motivo di Ennio Morricone scorrono i flashback che avvicinano l'Irlanda dell'Ira al Messico della rivolta contadina, e sovrappongono il viso del dottor Villega, il traditore che muore da martire, all'espressione desolata di un vecchio amico. Le cose ritornano, ma se un brigante peone può diventare un grande e glorioso eroe della rivoluzione messicana, allora, nel tempo circolare delle metafore, si producono significative mutazioni.
"Noi e voi siamo nuovi, ma siamo quelli di sempre", recita l'incipit del proclama Alle moltitudini d'Europa, l'esempio, forse più intenso, della rincorsa mitopoietica presa dal collettivo Wu Ming in vista delle giornate di Genova. "Siamo quelli di sempre", una frase, mutuata dal Subcomandante Marcos, che vale una dichiarazione di poetica e che tradisce, con notevole intensità perturbante, l'idea simbolica del fluire temporale(8). E si sa che nei simboli ricordo e scoperta coincidono: "Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo"(9). Nel presente della sollevazione planetaria ricordiamo il passato di altre insurrezioni.
Ciò nonostante, la nuova epopea della moltitudine non somiglia per nulla a Les misérables, e solo osservatori malevoli possono dire di rintracciare in tutto questo il piacere masochistico della marginalità. Il connubio, tra il grumo di bisogni e desideri degli uomini senza nome e la sfera dei grandi miti, consente di agire nuovamente in senso egemonico sull'immaginario. Permette l'elezione delle comparse al rango di protagonisti e inversamente restituisce i miti alla loro prima dimensione subcultural, riarticolando il pop, contro una certa estraneazione proiettiva, su basi di partecipazione diretta.
Quest'intuizione sostiene la trama di 54, l'ultimo romanzo degli autori di Q. Il milieu dello spettacolo e l'universo della grande politica si confondono col mondo degli ultimi, dei dissidenti inascoltati, dei manovali della mala, di coloro che tirano avanti strisciando nel fango della Storia. Il pantano e l'Olimpo. Così capita di incontrare, nell'aprile del 1954, il divino Cary Grant a fianco del giovane Pierre Capponi, inquieto comunista emiliano. L'archetipo e l'ammiratore impegnati in un serrato ed esilarante confronto. Un'altra metafora per dire che è possibile assaltare il firmamento dei miti e prendersi le stelle.
"Nell'affresco sono una delle figure di sfondo", è scritto all'inizio di Q. Sulle gambe dei diseredati cammina la Storia, nelle memorie degli ignoti si ricompongono importanti frammenti di epoche, dai dettagli, apparentemente insignificanti, si riconosce lo stile.
Si dànno storie, mitologie, narrazioni e simboli in collisione con il cemento ideologico del neoliberismo e quest'insieme di immagini e racconti può legittimamente competere con le rappresentazioni dominanti.
Siamo quelli di sempre, è vero, ma the times they are a-changin'...

Un caleidoscopico universo di maschere anima il racconto di una ribellione che ha il globo come posta e il tempo, da evocare e prefigurare, come alleato.
Subdoli infiltrati, irriducibili eretici, improbabili vietcong romagnoli, celebri generali indocinesi, guerriglieri che si muovono tra le fronde della selva e valorosi combattenti indigeni intersecano vorticosamente i loro percorsi. Sembra un'altra versione di quella fragorosa esplosione di storie, innescata da Noel Breckenridge III in un racconto scritto da Robert Silverberg nel 1973, di cui si offre, all'inizio dell'antologia, un brillante e attualissimo commento.
Nel labirinto delle narrazioni ci guida il filo dei millenari miti di emancipazione, dei grandi paradigmi di lotta insiti nell'ancestrale memoria dei popoli.
Fissando il volto di Vô Nguyen Giap intuiamo il profilo sconosciuto di Robin Hood, lo stesso che ritroviamo nei tratti collettivi di Luther Blissett(10). Tra banditi ci s'intende, potrebbe commentare qualcuno, ignorando che il mito del brigante sociale, di colui che ruba ai ricchi per donare ai poveri, è una radicata manifestazione dell'immaginazione pop. Maschera senza nome, paladino dai molti nomi: Janosik, Diego Corrientes, Nicola Šuhaj, Angelo "Angiolillo" Duca.
E il raffinato rapinatore bolognese Horst Fantazzini? Certo, anche lui a modo suo. E Pietro Cavallero? E Paolo Casaroli, morto pittore? Anche loro. Dopo che è finito bandito Ettore, il commovente partigiano di La paga del Sabato di Fenoglio, tutto può accadere. Volendo vedere le cose dal punto di vista opposto, la medesima idea suona così: "Anche il famoso Pancho Villa, il più grande bandito che c'era al mondo, s'è messo nella Rivoluzione. Ha cominciato come bandito, poi com'è finito? Niente! Generale... Be', per conto mio è finito a merda "(11).

Tiziano l'Anabattista ha stampato e diffuso clandestinamente Il Beneficio di Cristo, libro di frontiera tra cattolici e riformati. Ma non c'è da scandalizzarsi. La lotta impone di ricorrere a sottili stratagemmi e le regole delle aurorali narrazioni sul malizioso imbroglione sono ben note. Lo hanno chiamato trickster, riferendosi a colui che strappa impegni, scivola astutamente tra le fazioni in lotta, scompone i fronti contrapposti, sabota i poteri da cui finge di dipendere, li beffa impietosamente, ne produce la crisi, chiosando il tutto con una gustosa, crassa e irridente risata. Prometeo fu il più antico dei trickster, e nel deserto Breckenridge racconta, tra le altre cose, il mito di Prometeo.
Del mito si dice nelle prime due sezioni di questo volume, laddove è condotta una flessibile ricognizione sui territori delle storie ed è fissato il nesso tra mitopoiesi (produzione di miti) e movimenti.

I miti, oltre a essere ripresentati con scarti minimi ma determinanti, oltre a essere riutilizzati su differenti supporti simbolici, non necessariamente arcaici e premoderni - Luther Blissett è stato trickster, guerrillero e brigante alla fine del Secolo XX e lo è ancora oggi - sono suscettibili di sfacciate adulterazioni. Di variazioni condotte non in nome di un ribaltamento critico del passato sul presente, bensì secondo le maniere di inattesi détournement. L'effetto coincide con quello di una mordace ironia. La scelta iconografica del sito wumingfoundation.com fiancheggia organicamente il procedimento che agisce sul materiale mitico con una vigorosa tensione spiazzante. Il viso di Antonio Gramsci montato sul corpo di un santone induista, il volto barbuto di Marx associato alla muscolatura di uno skinhead, Guevara con una lunga kaffiya palestinese sono alcuni esempi che illustrano la pratica. Sarcastico contenimento di un'ortodossa iconomania.
Questa forma di mitopoiesi opera attraverso imprevedibili sincretismi, si riferisce a tempi diversi, rappresenta, con una punta di sano associazionismo neosurrealista, l'idea che tanti altri mondi sono stati e sono possibili.
Fantascienza o rivoluzione sociale?
Il petroliere sceicco Osama bin Laden, nelle vesti di un improbabile zio Sam, invita il popolo americano a bombardare l'Iraq(12). David Bowie fu l'icona di un comunismo alternativo e anticastrista dal rock umano(13). Il Bartleby di Melville è riemerso dai sotterranei di the Tombs, l'infame prigione di Manhattan, e se ne va in giro predicando il rifiuto del lavoro(14). Scoperto l'elisir di eterna giovinezza, Giuseppe Garibaldi, eroe dei due mondi, è giunto in Argentina, su un cargo uruguaiano, per partecipare ai moti del cacerolazo. Ed è certo che una subdola dittatura mistico-operaista, alla metà del XXI secolo, eserciterà il suo dominio pervasivo, capillare e telepatico(15). Se fossimo più saggi, ne prenderemmo coscienza e cercheremmo di porvi rimedio. Purtroppo non lo siamo.
Passato, presente, futuro, realtà, folli ucronie, finzione, altre dimensioni e universi alternativi... Chi ha detto che la potente creatività delle moltitudini debba rispettare convenzionalità logiche e linearità crono-logiche? Così, Vô Nguyen Giap porta tranquillamente a battesimo, nei lavacri telematici del III millennio, un'inedita comunità di lettori, autori e riproduttori di storie, che condivide, insieme a molti altri esseri umani, una centralità iniquamente disconosciuta nei processi della produzione sociale. Perché no? Tanto, come diceva il poeta, non si sfugge alla selva, né ieri, né oggi, né mai.

L'immagine, virata a tinte cupe, immortala cinque sagome vestite di tutto punto. Posa marziale, se è vero che avere stile equivale a conoscere un'arte marziale. L'espressione dei volti sfugge. Gli occhi non si distinguono, confusi dal grigio che cancella i lineamenti.
Una scritta lapidaria chiosa l'immagine: "This revolution is faceless".
È inutile aggiungere altro.


...continua


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