Giap


Bologna, gennaio 2003

GIAP


A Howard Fost (1914-2003)

Prima parte

La storia delle storie.

Il materiale di La storia delle storie è stato assemblato e utilizzato per un'esposizione collettiva, tenuta al Festivaletteratura di Mantova - di cui si dice, con copiosa dovizia di particolari, nell'ultima sezione di quest'antologia, dove è proposto un graffiante resoconto di quelle giornate lombarde. Successivamente rivisti, i tre interventi sono diventati altrettante collaborazioni per il quotidiano "l'Unità". Benché apparsi come contributi autonomi, rappresentano le schegge di una riflessione corale che indugia sul senso delle narrazioni e sulla loro eccedente irriducibilità ai meccanismi dello scambio economico. Viene introdotto, in tal modo, il tema della libera circolazione delle conoscenze, argomento ripreso sistematicamente alla fine del volume.
Attraverso una spregiudicata esplorazione, che scivola tra un racconto fantascientifico di Robert Silverberg e le pagine di Lewis Carroll, tra la letteratura eterodossa del Cinquecento e la toponomastica, La storia delle storie raccoglie una fluida dichiarazione di poetica.
Del resto, quale migliore enunciazione d'intenti di quella che rimane depositata sulla pagina dopo una violenta mareggiata di storie?



Breckenridge e il continuum
Wu Ming 1

Serendipità: l'essere disposti a trovare ciò che non si stava cercando, a valutare correttamente l'imprevisto. Noel Breckenridge III, uomo d'affari nella New York del XX secolo, tutto famiglia e Wall Street, amicizie strumentali e relazioni vacue, è da tempo stanco della vita e si domanda che senso abbia la sua presenza sulla Terra. Una sera, a casa di amici, Breckenridge incontra un famoso antropologo, che gli parla dell'importanza dei miti: i miti rendono tutto possibile, trasformano il passato e il futuro in presente, offrono "un barlume di eternità", come diceva Michelet della Rivoluzione francese. Durante la cena, Breckenridge è preda di violente allucinazioni, vede un deserto, quattro figure incappucciate... L'antropologo cita Franz Boas, studioso delle culture native americane: "Sembrerebbe che i mondi mitologici siano stati edificati solo per essere fatti di nuovo a pezzi, e che nuovi mondi siano stati costruiti con quei frammenti".
Qualche tempo dopo, Breckenridge si reca in Israele per un viaggio di lavoro. La sua angoscia è ormai giunta al culmine: talora le allucinazioni lo portano in un paesaggio preistorico, talora fantastica di risvegliarsi nella post-Storia, "nell'anno duemiliardesimo, zap!, giusto al di là dell'intero continuum".
Zap!
Breckenridge si risveglia in un deserto sconosciuto. Intuisce di trovarsi in un futuro remoto, anzi, un futuro anteriore, dove tutto sembra già essere successo: guerre totali, catastrofi, congiunzioni astrali, estinzioni e rinascite di civiltà, nuove catastrofi, mutazioni della specie umana (che non ricorda nulla delle proprie origini). L'anno duemiliardesimo. La rappresentazione tangibile della vita come "condizione senza senso".
Giunge una spedizione di quattro archeologi, che sembrano muoversi a caso e non sanno cosa stanno cercando. Breckenridge, l'uomo che viene dall'alba dei tempi, si unisce a loro e assume il ruolo di fabulatore, di aedo. Ogni sera, intorno al fuoco, cerca di far rinascere i miti classici, di rendere significativa la vita per mezzo della narrazione, ma domina l'entropia, i ricordi sono confusi, le storie si intrecciano e i personaggi si sovrappongono: Edipo è figlio di Euridice e la ama al posto di Orfeo, la uccide e fugge dalla Terra dei Ladri spiccando il volo con un paio di ali di cera, ma vola troppo alto e fa la fine di Icaro. Anche la leggenda di Faust e quella di Prometeo si confondono al di là di ogni comprensibilità.
I compagni di viaggio non sanno cosa pensare, addirittura litigano sulle interpretazioni, contestano il narratore:

...una massa di frammenti che fluttuano a caso... Vedo l'apparenza del mito ma non la verità interiore... Niente dramma, niente intensità, soltanto un nudo abbozzo di avvenimenti. Ho sentito cose migliori da te altre sere: Sheherazade e i Quaranta giganti, Don Chisciotte e la Fontana della giovinezza...

Dopo quaranta giorni nel deserto (esperienza iniziatica presente nei miti di diverse culture), la spedizione giunge alle porte di una città dalle dimensioni annichilenti, megalopoli antichissima - ma meno antica del tempo da cui proviene Breckenridge - che parrebbe abbandonata, non fosse per alcune ombre, figure avvistate in lontananza.
Gradualmente, i pochi abitanti della città trovano il coraggio di avvicinarsi e fraternizzare. Un nuovo pubblico per le storie di Breckenridge. Un giorno, i cinque scoprono nei sotterranei della città milioni di uomini e donne in animazione sospesa, chiusi dentro bozzoli tecnologici, in attesa di un risveglio dalle cause imperscrutabili. I pochi rimasti in stato di veglia sono i custodi dei "morti" e delle macchine. Il suicidio di una civiltà. Lo stesso nihilismo di Breckenridge, che vagheggiava di scavalcare il tempo per superare il mal di vivere.
Di fronte a una condizione che riflette la sua come in un immenso specchio deformante, Breckenridge intuisce in quale direzione muoversi per risolvere l'enigma (della vita, della città, del racconto di cui è protagonista): produrre un'esplosione di storie, narrare come mai si è fatto prima, evocare le storie, portarle alla luce, "estrarre la vita dalla morte". Per giorni e giorni Breckenridge racconta, racconta, racconta: la storia di Sansone e Odisseo, le origini dell'umanità, l'Ebreo errante, l'Età dell'oro e quella del ferro, l'Età dell'uranio, come l'uomo conobbe "le acque e i venti e le stagioni e i mesi e il giorno e la notte", e infine, come nacque l'arte:

Da un buco nello spazio scaturí un torrente di pura forza vitale. Molti uomini e molte donne tentarono di catturarne il flusso, ma furono ridotti in cenere dalla sua intensità. Alla fine, tuttavia, un uomo escogitò un mezzo. Scavò se stesso finché dentro di lui non vi fu nulla e si fece trascinare da un cane fedele fino al luogo in cui il torrente di energia scendeva dai cieli. Allora la forza vitale entrò in lui e lo riempì e invece di distruggerlo prese possesso di lui e gli ridiede la vita. Ma la forza straripò dentro di lui, traboccando, e il solo modo di risolvere la faccenda fu produrre racconti e sculture e canzoni, perché altrimenti la forza lo avrebbe inghiottito e lo avrebbe annegato. Il suo nome era Gilgamesh e fu il primo degli artisti dell'umanità. (Corsivo mio).

I miti sono sincretici ma non piú confusi. Breckenridge ritrova il significato e la funzione dei miti: permettere al singolo e all'umanità di attraversare la perdita del senso, verso la catarsi che darà inizio a un nuovo ciclo. È la "unità nucleare" del mito, descritta da Joseph Campbell nel suo L'eroe dai mille volti (1946), basata sulla palingenesi (la "nascita continua") e sullo schema "separazione dal mondo, penetrazione sino a qualche forma di potere, e ritorno apportatore di vita", cui segue "un trionfo di portata storica e universale". L'eroe risponde a una chiamata, si muove in un paesaggio simbolico e archetipale, attraversa l'ignoto (il deserto, il regno della notte, il ventre della balena), supera prove che rappresentano la necessità di "morire al mondo", staccarsi dalle forme che già conosce, affrontare una metaforica "non-esistenza" (il buco scavato in se stessi) che rende possibile l'azione creativa. L'ultima prova è l'apoteosi, affrontare il guardiano della soglia di un'altra dimensione. Recando con sé il dono dell'accesso a un nuovo tempo, l'eroe tornerà alla sua comunità. Apoteosi: attraverso una galleria, Breckenridge giunge alla sala comandi del sistema di ibernazione. Mentre cerca di capire come risvegliare i dormienti, un gigantesco scorpione lo afferra e gli chiede quale sia il suo scopo. Breckenridge risponde che è giunto il tempo di svegliare i dormienti, e chiede allo scorpione quale sia l'ultima prova da superare: una prova di forza? Una corvée? Un indovinello da risolvere? Lo scorpione chiede a Breckenridge di risolvere... l'indovinello della Sfinge a Edipo. Breckenridge ricorda la risposta e risolve l'enigma. Lo scorpione lo lascia andare, Breckenridge aziona i comandi e resuscita un'intera civiltà. Quando i risvegliati accorrono per sentire i suoi racconti, egli conclude:
- Alba dopo alba, il semplice fatto di essere vivo, di essere parte di tutte le cose, di essere parte della danza cosmica della vita, questo è il significato, la ragione d'essere.
Ritorno: Breckenridge si risveglia all'aeroporto Jfk di New York, intenzionato a cambiare vita.
Essere serendipici, conquistare l'attitudine che ti fa gioire delle deviazioni, dei lavori in corso, delle strade maestre bloccate, perché l'esperienza di lasciare la carreggiata e battere altri sentieri ci farà trovare qualcosa. Senza quest'attitudine, non si può capire come una vecchia rivista di fantascienza trovata su una bancarella possa contenere e rivelarci la storia delle storie, farci comprendere di quali narrazioni abbiamo bisogno.
Breckenridge e il continuum è un racconto di Robert Silverberg scritto nel 1973, pubblicato nel 1978 su un numero di "Robot".
Tra gli scopi della rivista vi era abbattere lo steccato tra science fiction e cultura di sinistra, impresa cui si dedicavano diversi gruppi, tra cui il collettivo Un'ambigua utopia. All'epoca molti compagni ritenevano la s-f (e tutta la "paraletteratura") reazionaria o, nella migliore delle ipotesi, "poco seria". In quel modo si tenevano lontani da un formidabile patrimonio di immaginazione a un tempo sovversiva e costituente. La pubblicazione della short story di Silverberg suona allora come una fiera dichiarazione d'intenti.
In mezzo c'è stato il cyberpunk e molto altro, abbiamo guadagnato terreno, tuttavia la battaglia è ancora in corso e anzi, le difficoltà di allora rischiano di riprodursi a un livello piú alto. Quando i nuovi movimenti parlano di "miti" e di "mitopoiesi" (creazione di miti) non intendono, come molti sembrano credere, proporre una versione "piú a sinistra" del pensiero reazionario e "sapienziale", che vede nel mito (al singolare) la narrazione statica di un tempo che sta sopra il nostro, tempo di un ordine ancestrale, "puro", "autentico", che la nostra civiltà avrebbe abbandonato e alle cui immagini dovrebbe riattingere (evitando di modificarle) per trarne lezioni univoche. Per la destra culturale (da Eliade a Guénon) il mito è una dimensione in cui tutto è già stato narrato.
Al contrario, noi crediamo che i miti (al plurale) siano narrazioni dinamiche e spurie, racconti che ci permettono di superare la quarantesima notte nell'ignoto (il deserto, le fasi di incertezza del conflitto sociale). La mitopoiesi consiste nel manipolare i miti, nel "farli a pezzi" e ricostruirli, per estrarre la consapevolezza dall'entropia, senza rinunciare alla ragione (come nell'uso strumentale del materiale mitologico da parte del nazismo) né all'emozione (cioè limitandosi ad analizzare). L'approccio giusto possiamo trovarlo solo raccontando. Per questo, siamo tutti Breckenridge.

"l'Unità", sabato 14 settembre 2002, sezione Orizzonti.

Homo fabulans
Wu Ming 2 e Wu Ming 4

Ogni singolo individuo, ogni comunità umana complessa, ha un insopprimibile bisogno di raccontare storie e di sentirsele narrare. Chi volesse confutare quest'affermazione, si troverebbe presto nei pasticci, poiché tale bisogno è parte integrante della nostra concezione di essere umano e di comunità: faremmo fatica a immaginare un cervello di homo sapiens che non ospitasse diversi tipi di storie e forse non avremmo niente di simile a ciò che siamo soliti considerare un cervello umano se i nostri antenati non si fossero divertiti a narrare e a ri-produrre fiabe e leggende. Le storie, al pari della manualità, hanno plasmato il nostro organo pensante, cosí come lo conosciamo, e lo stesso dovrebbe potersi dire per le grandi aggregazioni di individui.

...continua


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