Una burla riuscita

UNA BURLA RIUSCITA
Italo Svevo
(1926)



I

Mario Samigli era un letterato quasi sessantenne. Un romanzo ch'egli aveva pubblicato quarant'anni prima, si sarebbe potuto considerare morto se a questo mondo sapessero morire anche le cose che non furono mai vive. Scolorito e un po' indebolito, Mario, invece, continuò a vivere per tanti anni di certa vita lemme lemme com'era consentita da un impieguccio che gli dava non molti fastidi e un piccolissimo reddito. Una tale vita è igienica e si fa ancora più sana se, come avveniva da Mario, è condita da qualche bel sogno. Alla sua età egli continuava a considerarsi destinato alla gloria, non per quello che aveva fatto nè per quello che sperava di poter fare, ma così, perchè un'inerzia grande, quella stessa che gl'impediva ogni ribellione alla sua sorte, lo tratteneva dal faticoso lavoro di distruggere la convinzione che s'era formata nell'animo suo tanti anni prima. Ma così finiva coll'essere dimostrato che anche la potenza del destino ha un limite. La vita aveva rotto a Mario qualche osso, ma gli aveva lasciati intatti gli organi più importanti, la stima di se stesso, e anche un po' quella degli altri, dai quali certo la gloria dipende. Egli attraversava la sua triste vita accompagnato sempre da un sentimento di soddisfazione.
Pochi potevano sospettare in lui tanta presunzione, perchè Mario la celava con quell'astuzia, quasi inconscia nel sognatore, che gli permette di proteggere il sogno dal cozzo con le cose più dure di questo mondo. Tuttavia il suo sogno talvolta trapelava, e allora chi gli voleva bene tutelava quella innocua presunzione, mentre gli altri, quando sentivano Mario giudicare autori vivi e morti con parola decisa, e magari citare se stesso quale un precursore, ridevano, ma mitemente, vedendolo arrossire come anche un sessantenne sa, quand'è un letterato e in quelle condizioni. E il riso anch'esso è una cosa sana e non cattiva. Così stavano tutti benissimo: Mario, i suoi amici ed anche i suoi nemici.
Mario scriveva pochissimo ed anzi, per lungo tempo, dello scrittore non ebbe che la penna e la carta sempre bianca, pronte sul tavolo di lavoro. E furon quelli gli anni suoi più felici, così pieni di sogni e privi di qualsiasi faticosa esperienza, una seconda accesa infanzia preferibile persino alla maturità dello scrittore più fortunato che sa vuotarsi sulla carta, più aiutato che impedito dalla parola, e resta poi come una buccia vuota che si crede tuttavia frutto saporito.
Poteva restare felice quell'epoca solo finchè durava lo sforzo per uscirne. E da parte di Mario questo sforzo, non troppo violento, ci fu sempre. Per fortuna egli non trovava l'uscio per cui potesse allontanarsi da tanta felicità. Fare un altro romanzo come il suo antico, che era nato dall'ammirazione di persone superiori per censo e per rango, conosciuta da lui con l'ausilio del telescopio, era un'impresa impossibile. Egli continuava ad amare quel suo romanzo perchè poteva amarlo senza grande fatica, e gli appariva vitale come tutte le cose che simulano d'avere un capo e una coda. Ma quando voleva accingersi a lavorare di nuovo su quelle ombre di uomini, per proiettarle a forza di parole sulla carta, provava un salutare ribrezzo. La completa, benchè inconsapevole maturità dei sessant'anni gl'impediva un'opera simile. E non ci pensò a descrivere la vita più umile, la propria p. es., esemplare per virtù, e tanto forte per quella rassegnazione che la reggeva, non vantata e neppure detta, tanto ormai aveva improntato il suo io. Per poter fare ciò gli mancava lo strumento e anche l'affetto, ciò ch'era una vera inferiorità, ma frequente da coloro cui fu conteso di conoscere la vita più alta. E finì ch'egli abbandonò l'uomo e la sua vita, l'alta e la bassa o almeno credette di abbandonarla, e si dedicò, o credette di farlo, agli animali, scrivendo delle favole. Così, brevi, brevi, rigide, delle mummiette e non dei cadaveri perchè neppure putivano, gli venivano fatte nei ritagli di tempo. Infantile com'era (non per vecchiaia, perchè lo era stato sempre) le giudicò un esordio, un buon esercizio, un perfezionamento, e si sentì giovine e più felice che mai.
Dapprima, ripetendendo l'errore commesso in gioventù, scrisse di animali che conosceva poco, e le sue favole risonarono di ruggiti e barriti. Poi si fece più umano, se così si può dire, scrivendo degli animali che credeva di conoscere. Così la mosca gli regalò una gran quantità di favole dimostrandosi un animale più utile di quanto si creda. In una di quelle favole ammirava la velocità del dittero, velocità sprecata perchè non gli serviva nè a raggiungere la preda nè a garantire la sua incolumità. Qui faceva la morale una testuggine. Un'altra favola esaltava la mosca che distruggeva le cose sozze da essa tanto amate. Una terza si meravigliava che la mosca, l'animale più ricco d'occhi, veda tanto imperfettamente. Infine una raccontava di un uomo che, dopo di aver schiacciato una mosca noiosa, le gridò: "Ti ho beneficata; ecco che non sei più una mosca". Con tale sistema era facile di avere ogni giorno la favola pronta col caffè del mattino. Doveva venire la guerra ad insegnargli che la favola poteva divenire un'espressione del proprio animo, il quale così inseriva la mummietta nella macchina della vita, quale un suo organo. Ed ecco come avvenne.
Allo scoppio della guerra italiana, Mario temette che il primo atto di persecuzione che l' I. e R. Polizia avrebbe esercitato a Trieste, sarebbe venuto a colpire lui - uno dei pochi letterati italiani restati in città - con un bel processo che forse l'avrebbe mandato a penzolare dalla forca. Fu un terrore e nello stesso tempo una speranza che lo agitò, facendolo ora esultare ed ora sbiancare dal terrore. Egli si figurava che i suoi giudici, tutto un consiglio di guerra composto dei rappresentanti di tutte le gerarchie militari, dal generale in giù, avrebbe dovuto leggere il suo romanzo, e - se ci doveva essere giustizia - studiarlo. Poi certamente sarebbe giunto un momento un po' doloroso. Ma se il consiglio di guerra non era composto di barbari, si poteva sperare che, dopo letto il romanzo, per premio, la vita gli sarebbe stata risparmiata. Perciò egli scrisse molto durante la guerra, rabbrividendo di speranza e di terrore ancora più di un autore che sa che c'è un pubblico che aspetta la sua parola per giudicarla. Ma, per prudenza, scrisse solo delle favole dal senso dubbio, e, nella speranza e nella paura, le piccole mummie gli si vivificarono. Il consiglio di guerra non avrebbe mica potuto condannarlo facilmente per la favola che trattava di quel gigante grosso e forte che combatteva su una palude contro degli animali più leggeri di lui, e che periva, sempre vittorioso, nel fango che non sapeva sostenerlo. Chi avrebbe potuto provare che si trattava della Germania? E perchè pensare alla stessa Germania a proposito di quel leone, che vinceva sempre, perchè non s'allontanava di troppo dalla propria grande, bella tana, finchè non si scopriva che la grande, bella tana si prestava ad un affumicamento d'esito sicuro?
Ma così Mario s'abituò a moversi nella vita sempre accompagnato dalle favole, come se fossero state le tasche del suo vestito. Progresso letterario ch'egli doveva alla polizia, la quale però si dimostrò del tutto ignorante della letteratura paesana, e lasciò in pace, per il corso di tutta la guerra, il povero Mario disilluso e rassicurato.
Poi ci fu un altro piccolo progresso nella sua opera con la scelta di protagonisti più adatti. Non più gli elefanti, tanto lontani, nè le mosche dagli occhi privi di ogni espressione, ma i cari, piccoli passeri ch'egli si prendeva il lusso (grande lusso, a Trieste, di quei giorni) di nutrire nel suo cortile con briciole di pane. Ogni giorno egli spendeva qualche tempo a guardarli moversi, ed era quella la parte più brillante della giornata, perchè la più letteraria, forse più letteraria delle stesse favole che ne risultavano. Se desiderava addirittura di baciare le cose di cui scriveva! Di sera, sui tetti vicini e su un alberello intristito nel cortile, sentiva cinguettare i passeri, e pensava che prima di piegare sulla schiena al sonno la testina, si dicessero le avventure della giornata. Al mattino era lo stesso cicaleccio vivo e sonoro. Si dicevano certamente i sogni della notte. Come lui stesso vivevano fra le due esperienze, quella della vita reale e quella dei sogni. Erano infine degli animali che avevano una testa in cui potevano annidarsi dei pensieri, e avevano dei colori, degli atteggiamenti eppoi anche una debolezza da far compassione, e delle ali da destare l'invidia, perciò la vera e propria vita. La favola restò tuttavia la piccola mummia irrigidita da assiomi e teoremi, ma almeno la si potè scriver sorridendo.
E la vita di Mario s'arricchì di sorrisi. Un giorno scrisse:
"Il mio cortile è piccolo, ma, con l'esercizio, vi si potrebbero spendere dieci chilogrammi di pane al giorno". Un vero sogno di poeta cotesto. Dove trovare in quell'epoca dieci chilogrammi di pane per gli uccellini privi di tessera? Un altro giorno: "Vorrei saper abolire la guerra sul piccolo ippocastano nel mio cortile, la sera, quando i passeri cercano il miglior posto per la notte, perchè sarebbe un buon segno per l'avvenire dell'umanità".
Mario coperse di tante idee i poveri passeri da celarne le esili membra. Il fratello Giulio che abitava con lui, e pretendeva di amare la sua letteratura, non sapeva amarla abbastanza per includervi anche gli uccelletti. Pretendeva che mancassero d'espressione. Ma Mario spiegava ch'erano essi stessi un'espressione della natura, un complemento delle cose che giacciono o camminano, al disopra di esse, come l'accento sulla parola, un vero segno musicale.
L'espressione più lieta della natura: negli uccellini neppure la paura è verde e abietta come nell'uomo, e non mica perchè celata dalle pene, chè appare anzi evidente, ma non altera in alcun modo il loro elegante organismo. Si deve anzi credere che il loro cervellino non la sappia mai. L'allarme viene dalla vista o dall'udito, e nella fretta passa direttamente alle ali. Gran bella cosa un cervellino privo di paura in un organismo in fuga! Uno degli animalucci ha trasalito? Tutti fuggono, ma in modo che pare dicano: Ecco una buona occasione per aver paura. Non conoscono le esitazioni. Costa tanto poco fuggire quando si hanno le ali. E il volo loro è sicuro. Evitano gli ostacoli rasentandoli, ed attraversano il più fitto groviglio di rami d'alberi senza mai esserne arrestati o lesi. Pensano soltanto quando son lontani, e cercano allora d'intendere la ragione della fuga, studiando i luoghi e le cose. Inclinano con grazia la testina a destra e a sinistra, e aspettano con pazienza di poter tornare al luogo donde son fuggiti. Se ci fosse della paura ad ogni loro fuga, sarebbero morti tutti. E Mario sospettava che si procurassero ad arte tante agitazioni. Infatti potrebbero mangiare in piena calma il pane che viene loro donato, e invece essi chiudono gli occhietti maliziosi ed hanno la convinzione che ogni loro boccone è un furto. Proprio così condiscono il pane asciutto. Da veri ladri non mangiano mai sul posto ove il pane è stato gettato, e là non c'è mai lite fra di loro perchè sarebbe pericoloso. La contesa per le briciole scoppia al posto ove son giunti dopo la fuga.
Grazie a tanta scoperta, stese con facilità la favola: "Un uomo generoso, regolarmente, per lunghi anni, aveva regalato ogni giorno del pane agli uccelletti, e viveva sicuro che l'animo loro fosse pieno di riconoscenza per lui. Non sapeva guardare costui: altrimenti si sarebbe accorto che gli uccelletti lo consideravano un imbecille cui, per tanti anni, avevano saputo rubare il pane senza che a lui fosse riuscito di catturare neppur uno di loro".
Pare impossibile che un uomo sempre lieto com'era Mario, abbia commesso un'azione simile scrivendo questa favola. Era dunque lieto solo a fior di pelle? Ficcare tanta malizia e tanta ingiustizia nell'espressione più lieta della natura! Equivaleva a distruggerla. Io credo anche che immaginare quell'orrenda sconoscenza dagli alati, fosse una grave offesa all'umanità, perchè se gli uccellini che non sanno parlare parlano così, come si esprimerebbero i beneficati dalla lingua lunga?
E intimamente tristi erano tutte le sue piccole mummie: durante la guerra diminuì sulle vie di Trieste il transito dei cavalli i quali poi erano nutriti di solo fieno. Mancavano perciò sulla via quei semi saporiti lasciati intatti dalla digestione. E Mario si figurava di domandare ai suoi piccoli amici: "Siete alla disperazione?". E gli uccellini rispondevano: "No, ma siamo in meno".
Voleva forse Mario abituarsi a considerare anche il proprio insuccesso nella vita come una conseguenza di circostanze che non dipendevano da lui, per sottomettersi senza dolore? La favola resta sorridente solo perchè chi legge ride. Ride di quella bestia d'uccellino che non ricorda la disperazione, vicino alla quale è vissuto alcuni certi giorni, perchè egli stesso non ne fu toccato. Ma dopo di aver riso si pensa all'impassibile aspetto della natura quando fa i suoi esperimenti, e si rabbrividisce.
Spesso la sua favola fu dedicata alla delusione che segue ad ogni opera umana. Pareva volesse consolarsi della propria assenza dalla vita dicendosi: Sto bene io che non faccio, perchè non fallo.
Un ricco signore amava tanto gli uccellini da dedicare loro una sua vasta tenuta ove era proibito d'insidiarli o anche solo di spaventarli. Costruì per essi dei buoni ricoveri caldi per il lungo inverno, riforniti abbondantemente di nutrimento. Dopo qualche tempo nella vasta tenuta s'annidarono una quantità di uccelli rapaci, di gatti e persino di grossi roditori che aggredirono gli uccellini. Il ricco signore pianse, ma non guarì della bontà ch'è una malattia inguaribile, e lui che voleva nutriti gli uccellini, non seppe interdire il cibo ai falchetti e agli altri animali tutti.
E questa derisione della bontà umana, secca secca, fu anch'essa pensata da quel Mario roseo e sorridente. Egli gridava che la bontà umana non riesce che ad aumentare la vita su un dato posto dove subito scorre abbondante il sangue, e ne sembrava felice.
I giorni di Mario dunque erano sempre lieti. Si poteva anche pensare che tutta la sua tristezza passasse nelle sue favole amare e che perciò non arrivasse ad oscurare la sua faccia. Ma pare che tanta soddisfazione non lo accompagnasse nelle sue notti e nel sogno. Giulio, il fratello suo, dormiva in una stanza vicina alla sua. Di solito costui russava beatamente nella digestione, che nel gottoso può essere malata, ma è ben completa. Quando però non dormiva, gli provenivano dei suoni strani dalla stanza di Mario: sospiri profondi che parevano di dolore, eppoi anche dei singoli gridi altissimi di protesta. Echeggiavano alti nella notte quei suoni, e non parevano emessi dall'uomo lieto e mite che si vedeva alla luce del giorno. Mario non ricordava i propri sogni, e, soddisfatto del sonno profondo, credeva di essere stato almeno altrettanto lieto nel suo letto come lo era durante la giornata faticosa. Quando Giulio, impensierito, gli raccontò del suo strano modo di dormire, egli credette che non si trattasse d'altro che di un nuovo sistema di russare. Invece, data la costanza del fenomeno, è certo che quei suoni e quei gridi erano l'espressione sincera, nel sonno, dell'animo torturato. Si potrebbe credere che si trattasse di una manifestazione che potesse infirmare la moderna e perfetta teoria del sogno secondo la quale nel riposo ci sarebbe sempre la beatitudine del sogno contenente il desiderio soddisfatto. Ma non si potrebbe anche pensare che il vero sogno del poeta è quello ch'egli vive quand'è desto, e che perciò Mario avrebbe avuto ragione di ridere di giorno e piangere di notte? C'è poi la possibilità di un'altra spiegazione confortata dalla stessa teoria del sogno: Poteva nel caso di Mario esserci un desiderio soddisfatto nella libera manifestazione del suo dolore. Egli poteva gettare allora, nel sogno notturno, la pesante maschera che durante il giorno gli era imposta per celare la propria presunzione, e proclamare coi sospiri e i gridi: Io merito di più, io merito altro. Uno sfogo che anch'esso può tutelare il riposo.
Al mattino sorgeva il sole, e Giulio, stupito, apprendeva che Mario credeva di aver passata la notte intera, tanto ricca di singhiozzi, in compagnia di qualche nuova favola. Innocua del tutto talvolta. Si trovava in elaborazione da varii giorni: La guerra aveva portato nel cortile dei passeri la grande novità, la penuria, e il povero Mario aveva inventato un metodo per far durare più a lungo il pane scarso. Di tempo in tempo appariva nel cortile e rinnovava nei passeri la diffidenza. Sono animali lenti quando non volano, e per eliminare una diffidenza abbisognano di lungo tempo. La loro anima è come una bilancetta, su un piatto della quale pesa la diffidenza e sull'altro l'appetito. Questo cresce sempre, ma se si rinnova anche la diffidenza, essi non abboccano. Con un metodo rigido si potrebbero far morire di fame accanto al pane. Una triste esperienza se fatta a fondo. Ma Mario la spinse fino a poter riderne, ma non a far piangere. La favola (un uccellino gridava all'uomo: "Il tuo pane sarebbe saporito solo se tu non ci fossi") rimase lieta anche perchè i passeri durante la guerra non dimagrarono. Sulle vie di Trieste ci furono anche in quell'epoca, abbondanti, le porcheriole di cui sanno nutrirsi.

II

La presunzione di Mario non faceva del male a nessuno, e sarebbe stato umano di lasciargliela. Giulio la tutelava tanto bene che con lui Mario non arrossiva neppure quando s'accorgeva d'averla manifestata. Anzi Giulio l'aveva intesa tanto bene da adottarla con più chiarezza che non ci fosse in Mario stesso. Anche lui, dinanzi ai terzi, si guardava dal proclamare la sua fede nel genio del fratello, ma senza sforzo, solo per conformarsi a quanto vedeva fare da Mario stesso. E Mario sorrideva dell'ammirazione del fratello, non sapendo ch'era stato lui che gliel'aveva insegnata.
Ma ne godeva, e la stanza dove l'ammalato passava il suo tempo fra letto e lettuccio, era un posto raro a questo mondo perchè Mario vi trovava una pace ch'egli diceva silenzio e raccoglimento, mentre era qualche cosa che più fortunati di lui trovavano in luoghi specialmente rumorosi.
Piena di gloria, quella stanza conteneva poche altre cose. Un desco leggero che veniva spostato dal centro, ove i due fratelli prendevano la colazione, ad un cantuccio accanto al letto ove desinavano. Da poco tempo in quella stanza da pranzo era stato posto il letto di Giulio. Durante la guerra il combustibile era caro, eppoi quella era la stanza più calda della casa, per cui l'ammalato, durante l'inverno, non l'abbandonava mai. Nelle lunghe sere invernali, in quella stanza, il poeta sosteneva il gottoso ed il gottoso confortava il poeta. La somiglianza di tale rapporto con quello dello zoppo e del cieco è evidente.
Per un caso singolare i due vecchi ch'erano stati sempre poveri, non ebbero a sopportare delle grandi sofferenze durante la guerra che fu tanto dura a tutti i Triestini. I loro disagi furono diminuiti da una grande simpatia che Mario seppe ispirare ad uno slavo del contado e che si manifestò in doni di frutta, uova e pollame. Si vede da questo successo del letterato italiano che mai ne aveva avuti altri, che la nostra letteratura prospera meglio all'estero che da noi. Peccato che Mario non seppe apprezzare quel successo che altrimenti gli avrebbe fatto bene. Accettava e mangiava volentieri i doni, ma gli pareva che la generosità del contadino fosse dovuta alla sua ignoranza e che il successo con gli ignoranti spesso si chiama truffa. Si sentiva perciò pesare il cuore, e per difendere il buon umore e l'appetito ricorse alla favola: Ad un uccellino furono offerti dei pezzi di pane troppo grandi per il suo beccuccio. Con piccolo resultato l'uccellino s'accanì per vari giorni intorno alla preda. Fu ancora peggio quando il pane indurì, perchè allora l'uccellino dovette rinunciare al ristoro offertogli. Volò via pensando: L'ignoranza del benefattore è la sventura del beneficato.
Solo la morale della favola s'adattava esattamente al caso del contadino. Il resto era stato alterato tanto bene dall'ispirazione, che il contadino non vi si sarebbe ravvisato, e questo era lo scopo principale della favola. C'era stato lo sfogo e non andava a colpire il contadino, proprio come non lo meritava. Perciò studiandola si scopre nella favola una manifestazione di riconoscenza, benchè non forte.
I due fratelli vivevano con rigida regolarità. Non sconvolse le loro abitudini neppure la guerra che disordinò tutto il resto del mondo. Giulio lottava da anni e con buon successo contro la gotta che gli minacciava il cuore. Andando a letto di buon'ora, e contando i bocconi che si concedeva, il vecchio, di buon umore, diceva: "Vorrei sapere se, tenendomi vivo, truffo la vita o la morte". Non era un letterato costui, ma si vede che, ripetendo ogni giorno le stesse azioni, si finisce con lo spremerne tutto lo spirito che ne può scaturire. Perciò all'uomo comune non è mai raccomandata abbastanza la vita regolata.
Giulio, d'inverno, si coricava proprio col sole, e d'estate molto prima di esso. Nel letto caldo le sue sofferenze s'attenuavano ed egli lo abbandonava ogni giorno per alcune ore, unicamente per conformarsi al volere del medico. La cena era servita accanto al suo letto, e i due fratelli la prendevano insieme. Era condita da un grande affetto, l'affetto ereditato dalla loro prima giovinezza. Mario era per Giulio sempre molto giovine, e Giulio per Mario il vecchio che avrebbe saputo consigliarlo in ogni evenienza. Giulio non s'accorgeva quanto Mario gli andasse somigliando nella prudenza e nella lentezza, come se avesse avuto la gotta anche lui, e Mario non vedeva che il vecchio fratello ormai non poteva dargli consigli, non avrebbe mai detto cosa che non fosse stata spiata dal suo proprio desiderio. Era anche giusto: non si trattava di consigliare o d'ammonire; bisognava sostenere e incoraggiare. Ciò riusciva anche più facile a un gottoso, per quanto non sembri. E quando Mario concludeva l'esposizione di una sua idea, di una sua speranza o intenzione con le parole: "Ti pare?" a Giulio assolutamente pareva, e consentiva convinto. Perciò per ambedue la letteratura era una bonissima cosa, e la parca cena era migliore, condita da un mite affetto sicuro, che escludeva qualsiasi dissenso.
Un piccolo dissenso ci fu tra i due fratelli per quei benedetti uccellini che si portavano via una parte del loro pane. "Potresti salvare la vita ad un Cristiano con quel pane, " osservò Giulio. E Mario: "Ma sono più di cinquanta gli uccellini che con quel pane rendo felici". Giulio fu subito e per sempre d'accordo.
Quando la cena era finita, Giulio si copriva la testa, le orecchie e le guancie col berretto da notte, e Mario per una mezz'oretta gli leggeva qualche romanzo. Al suono della dolce voce fraterna, Giulio si quietava, il suo cuore affaticato assumeva un ritmo più regolare, e il suo polmone s'allargava. Il sonno allora non era più lontano e, infatti, presto il suo respiro si faceva più rumoroso. Allora Mario affievoliva gradatamente la voce finchè arrivava senza soluzione di continuità al silenzio; poi, dopo di aver smorzata la luce, s'allontanava sulle punta dei piedi.
La letteratura era perciò una buona cosa anche per Giulio, ma una sua forma, la critica, lo danneggiava e minacciava la sua salute. Troppo spesso Mario interrompeva la lettura per mettersi a discutere violentemente il valore del romanzo che leggeva. La critica sua era la grande critica dell'autore disgraziato. Era dessa il suo grande riposo, agitato solo in apparenza, il sogno più splendido. Ma aveva lo svantaggio d'impedire il sonno altrui. Scoppii di voce, suoni di disprezzo, discussioni con interlocutori assenti, tanti strumenti musicali varii che s'alternavano, e inpedivano il sonno. Eppoi Giulio anche per cortesia doveva badare di non addormentarsi, quando ad ogni tratto gli si domandava il suo parere. Doveva dire:"Anche a me pare". Era tanto abituato a tali parole che per sillabarle gli sarebbe bastato di lasciar passare il suo fiato sulle labbra. Ma chi russa non sa fare neppur questo.
Una sera il furbo malato che pareva tanto innocente in quel suo berretto abbondante, ebbe una trovata. Con voce turbata (forse perchè temeva di essere indovinato) domandò a Mario di leggergli il suo romanzo. Mario si sentì affluire più caldo il sangue al cuore. "Ma tu già lo conosci, " obiettò mentre subito s'accinse ad aprire il libro che non era mai lontano da lui. L'altro rispose che da lunghi anni non l'aveva più letto e che sentiva proprio il desiderio di riudirlo.
Con voce dolce, mite, musicale, Mario iniziò la lettura del suo romanzo Una giovinezza, accompagnata dal vivo consenso di Giulio che incominciava ad abbandonarsi al riposo, mormorando: "Bello, magnifico, benissimo," ciò che rendeva la voce di Mario vieppiù calda e commossa.
Anche per Mario fu una sorpresa. Non aveva letto mai roba propria ad alta voce. Come diventava più significativa ravvivata dal suono, dal ritmo e anche dalle pause accorte e dal saggio acceleramento. I musicisti - beati loro! - hanno degli esecutori che non fanno altro che studiare il modo di regalare loro grazia ed efficacia. Degli scrittori il lettore frettoloso non mormora neppure la parola e passa da segno a segno come un viandante in ritardo su una via piana. "Come scrissi bene!" pensò Mario ammirando. Aveva letto tutt'altrimenti la prosa degli altri e, nel confronto, la sua brillava.
Dopo poche pagine il respiro di Giulio rantolò: era il segno che il suo polmone veniva privato della guida cosciente. Mario, ritiratosi nella propria stanza, non seppe staccarsi dal romanzo che lesse ad alta voce per buona parte della notte. Era stata una vera nuova pubblicazione quella. Aveva scosso l'aria ed era andata al suo cervello ed a quello degli altri per l'orecchio, l'organo nostro più intimo. E Mario sentì che la sua idea ritornava a lui nuova, abbellita, e arrivava al suo cuore per nuove vie ch'essa creava. Quale nuova speranza!
E il giorno appresso nacque la favola dal titolo: Il successo sorprendente. Eccola: "Un ricco signore disponeva di molto pane e si divertiva a sminuzzarlo agli uccellini. Ma del dono approfittava una diecina o poco più di passeri, sempre gli stessi, e buona parte del pane ammuffiva all'aria. Il povero signore ne soffriva, perchè nulla è tanto disgustoso come veder poco gradito un proprio dono. Ma ebbe allora la ventura di ammalare, e gli uccellini che non trovarono più il pane cui erano usi, cinguettarono dappertutto: "Il pane che c'era sempre non c'è più, ed è un'ingiustizia, un tradimento". Allora una moltitudine di passeri si recò a quel posto ad ammirare la provvidenza che aveva cessato di manifestarvisi, e quando il benefattore risanò, non ebbe pane abbastanza per saziare tutti i suoi ospiti".
È difficile di conoscere le origini di una favola. Il titolo solo rivela che questa dev'essere nata nella stanza dell'ammalato ove Mario aveva trovato il suo successo. Chi conosce le vie per cui si muove l'ispirazione, non si meraviglierà che dal successo tanto semplice avuto da Mario col fratello, si sia saltati a quel successo del buon diavolo della favola, che aveva avuto bisogno di ammalare per arrivarci. Non intenderà donde sieno venuti quegli uccellini tanto maliziosi che sapevano piangere in pubblico ma, per avarizia, tenevano celata ai compagni la loro buona fortuna, a meno non si supponga, ciò ch'è un po' difficile, che il poeta, quando scrive, sia chiaroveggente, e che nel proprio successo Mario abbia intuita la malizia di Giulio. Invece bisogna pensare che quando un uomo, nella posizione di Mario, si mette ad analizzare l'elemento successo, attribuisce della malvagità a tutti, anche agli uccellini.
La sera seguente Mario si fece pregare per riprendere la lettura. "Troppo presto ti addormentasti, - disse al fratello - ed ho paura di seccarti". Ma Giulio non intendeva di rinunziare all'unica letteratura ch'era tanto immune dalla critica. Protestò che arrivava al sonno non per la noia, la quale anzi è nemica di esso, ma per il benessere assoluto che gli derivava dal piacere di sentire certi suoni e pensieri.
Perciò le cose avviate a questo modo proseguirono inalterate sino alla fine della guerra, e la guerra durò tanto che il romanzo - contrariamente a quanto aveva asserito l'unico critico che se ne fosse occupato - fu troppo corto. Ma nè per Giulio nè per Mario ciò fu una grande difficoltà. Giulio dichiarò: "Mi sono tanto bene abituato alla tua prosa che mi sarebbe difficile di sopportarne un'altra, di quelle irose ed enfatiche". Mario, beato, ricominciò da capo, sicuro di non annoiarsi. La propria prosa è sempre la più adatta al proprio organo vocale. Si capisce: Una parte dell'organismo dice l'altra.
E Mario, passando di successo in successo, si esponeva più inerme alla trama che si doveva ordire a suo danno.

...continua


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